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TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI (2017)

- 16/01/2018


voto 9

L’apparente tranquillità di una piccola cittadina nel cuore degli Stati Uniti viene sconvolta dalla comparsa di tre grandi manifesti.
I tre cartelloni, affissi su di una piccola strada all’ingresso della città, sono opera di Mildred Hayes e riaccenderanno l’attenzione su di un caso di stupro e omicidio ancora irrisolto dopo 6 mesi. La vittima è la figlia di Mildred.
Il celebre elefante in una stanza va innescare tutta una serie di reazioni disperatamente disparate nella comunità.

Il regista Martin McDonagh, qui alla sua terza regia dopo le ottime prove conseguite con IN BRUGES-La Coscienza dell’Assassino (2008) e 7 PSICOPATICI (2012), conserva la sua cifra stilistica, perfezionandola e rendola unica e riconoscibile.
Sforna un film praticamente perfetto che veste i panni della commedia nerissima per rivelare un’anima fortemente drammatica.
Una riflessione lucida e sentita sulla natura di questo grande continente che è l’America, che deve ancora fare i conti col suo passato e che ha costruito la sua filosofia e la sua immagine su basi scricchiolanti e su contraddizioni che minacciano costantemente la propria credibilità.

La vicenda ruota attorno a due personaggi cardine che sono entrambi votati drammaticamente alla solitudine, arrabbiati col mondo intero: la feroce Mildred e il poliziotto omofobo e razzista e alcolizzato Jason Dixon.
I loro gesti e le loro azioni sono spesso al limite del fanatismo e del disumano. Procedono a rotta di collo, mangiando la polvere e inghiottendo sangue ( e facendolo sputare agli altri ), imprecando, colpendo senza mezzi termini. Sono figli di una nazione che li ha presi in giro, che ha fatto credere loro che i sogni potessero esistere per poi lasciarli in balia di loro stessi.
A rallentare o fermare questa caduta libera verso la (auto)distruzione totale saranno due ( di tre ) lettere che riceveranno inaspettatamente e che li porrà davanti a loro stessi e ai loro errori.

Ma come nei precedenti lavori non sono da meno le incursioni e le influenze di personaggi secondari che gravitano accidentalmente o necessariamente attorno a questa vicenda, dove i poliziotti anziché far il loro lavoro preferiscono reprimere e criminalizzare chi chiede loro sia fatta giustizia; dove gli ambienti familiari sono viziati e malsani; dove (quasi ) tutti non fanno mai nulla senza un tornaconto; dove i principi azzurri possono presentarsi nelle vesti di un nano con problemi di alcol ( un ritrovato Peter Dinklage ormai celebre per la sua partecipazione nel serial de IL TRONO DI SPADE ); dove gli amici sono i nostri nemici e viceversa ( è il caso dello sceriffo Bill Willoughby, interpretato da Woody Harrelson, che si rivela essere il cuore più umano di tutto il film ).

Brillano e divampano come fiamme indomabili le interpretazioni di una dura e portentosa Frances McDormand nei panni di una madre combattiva e sboccata; e quella di Sam Rockwell nei panni tra il comico e il patetico del poliziotto Dixon.
Le loro performance sono state entrambe premiate con un Golden Globe ( Miglior Attrice Protagonista e Miglior Attore Non Protagonista in un film drammatico) .
Oltre questi due premi, il film si è aggiudicato altri due Golden Globe: uno per la miglior sceneggiatura, firmata dallo stesso McDonagh, e uno come Miglior Film Drammatico.
Quasi scontata la candidatura e la vittoria della McDormand e di Rockwell e della Sceneggiatura alla prossima notte degli Oscar.

E quel finale aperto su di un auto che dal cuore degli States si sposta verso l’Idaho è forse l’urgenza di un percorso interiore che ci porta a chiedere e chiederci “Dove stiamo andando? Stiamo facendo la cosa giusta?
McDonagh e il suo film pare vogliano suggerirci che sì, c’è ancora tempo per cambiare le cose. C’è ancora tempo per fare la scelta migliore.

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Ossessionato dal trovare delle costanti nelle incostanze degli intenti di noi esseri umani, quando non mi trovo a contemplare le stelle, mi piace perdermi dentro a un film o a una canzone.

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