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THE IRISHMAN – Il peso specifico di un Non-Capolavoro (recensione)

- 17/01/2020
THE IRISHMAN di MArtin Scorsese


THE IRISHMAN è l’opera omnia di uno Scorsese in stato di grazia. Un film monumentale, certo non per tutti, che riassume 40 anni di carriera come regista , e che entra di diritto a far parte della Storia del cinema. Seppure con qualche riserva.

Il film, prodotto da Netflix, è ispirato al saggio del 2004 scritto da Charles Brandt, basato sulla vita di Frank Sheeran, dal titolo “I Heard You Paint Houses”.

THE IRISHMAN guarda alla vita e alla coscienza di un manovale della Mafia, Frank Sheeran, che si muove dagli anni ’50 ai primi anni duemila e che nella sua umiltà e dedizione al lavoro (sporco) si fa strada nella malavita, arrivando a essere il braccio destro del potente leader del sindacato dei trasporti Jimmy Hoffa.
Attorno ai crimini e ai tradimenti di questo teatro quasi shakespeariano, si entra nelle pieghe e nelle pagine della Storia, dall’omicidio di Kennedy fino al caso Watergate.

the irishman di Martin Scorsese
THE IRISHMAN ha ricevuto 10 nomination agli oscar 2020

Il sodalizio tra la più potente piattaforma on demand (Netflix) e uno dei registi più importanti del nostro secolo è costata ben 160 milioni di dollari, cifra che è lievitata sopratutto a causa del lavoro in post produzione in merito al lifting (in digitale) fatto sugli attori principali.
Il tanto dibattuto De-Aging (già utilizzato per altro da Ang Lee su Will Smith nel film “GEMINI MAN“) in alcune sequenze è davvero sorprendente, ma nel complesso è qualcosa che fa più inorridire che sorprendere, plastificando i volti di attori ottantenni che di fatto, per quanto ringiovaniti sul viso, nei movimenti e nella postura risultano essere un attimino imbalsamati. Talvolta si ha la sensazione di trovarsi in un museo delle cere dove le statue sembrano essere vive.

Ma al di là di questo aspetto tecnico, quello che conta è la materia filmica di questa pellicola che dura ben tre ore e mezza.
Netflix ha dato carta bianca e Scorsese, assieme alla sapiente e un tantino prolissa penna di Steven Zaillan che ne ha firmato la sceneggiatura, ha dato libero sfogo al suo estro creativo, sfornando tanto (troppo) di quel materiale, che avrebbe potuto dirigere una miniserie.

Perché diciamocelo, il RE-gista che ha firmato capolavori come “TAXI DRIVER” (1976) e che ha diretto e impreziosito il genere dei cosiddetti Ganster Movie con titoli come “MEAN STREET“(1973), passando per “QUEI BRAVI RAGAZZI” (1990) fino a “CASINÒ“(1995); con questo “THE IRISHMAN” chiude idealmente il suo universo della malavita, con un’opera corposa, pregna di Storia e di storie e di personaggi, che sono sempre gli stessi, che non aggiungono nulla di nuovo a un panorama cinematografico e televisivo ormai saturo di storie come questa.

Robert De Niro è Frank Sheeran in THE IRISHMAN di Martin Scorsese

Sul viale del tramonto, Scorsese guarda con nostalgia a un far cinema che non è e mai sarà più lo stesso, circondandosi di attori e colleghi che sono prima di tutto amici fidati.
Se al montaggio ritroviamo una brava Thelma Schoonmaker, le musiche sono affidate a Robbie Robertson che collabora con Scorsese dai tempi di “TORO SCATENATO” (1980), mentre la luminosa fotografia è quella di Rodrigo Prieto che conobbe sul set di “THE WOLF OF WALL STREET” (2013).

Ma spetta agli attori in prima linea conferire anima e corpo e ritmo a questo film non perfetto.
Se Robert De Niro e Al Pacino sono sempre i medesimi, con i loro manierismi e le loro solite smorfie, pur restando due pesi massimi della recitazione, a sorprendere è un misurato e ambiguo Joe Pesci.
Uomini su cui il peso delle loro azioni e delle loro coscienze hanno un ruolo fondamentale.

Perché al di là delle sparatorie e degli omicidi che si ripetono all’infinito, in maniera quasi incolore e stanca, la cinepresa si sofferma sullo sguardo severo di quelle donne (mogli, madri, figlie) che guardano con disapprovazione o preoccupazione alle azioni scellerate di questi uomini che giocano con le pistole e col denaro, mettendo a repentaglio le loro stesse vite.
Emblematico in tal senso è il pesante silenzio di una Anna Paquin che non può perdonare suo padre neppure in vecchiaia.

E sono forse quei 40 minuti finali che risollevano le sorti di una pellicola non propriamente compatta e ritmata.
Quel lungo viaggio verso la fine è il saluto di un regista e di una recitazione e di un Cinema di altri tempi.

Per quanto possa essere riadattato ai giorni nostri, ringiovanito dalla computer grafica e promosso da una piattaforma digitale al servizio delle nuove generazioni, quel Cinema è solo uno sbiadito ricordo troppo grande, troppo pesante, per essere contenuto nella memoria di uno smartphone.

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Ossessionato dal trovare delle costanti nelle incostanze degli intenti di noi esseri umani, quando non mi trovo a contemplare le stelle, mi piace perdermi dentro a un film o a una canzone.

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