Cinquantaseiesimo giorno di quarantena.
La sindrome delle donne giraffa.
Tempo fa lessi un vecchio libro di antropologia. In Myanmar, la Birmania per intenderci, esiste una antichissima etnia i Kayan, una minoranza del popolo Karenni che parla il tibetano. La peculiarità di questa popolazione è che le donne hanno un lunghissimo collo. La deformazione della spina dorsale inizia da bambine. Una colonna di tubi d’ottone cinge e modifica la conformazione delle prime vertebre della spina dorsale. Ogni anno, assistite dalle anziane del villaggio, tutte le bimbe e le ragazze aumentano di uno o due tubi la colonna gioiello che adorna il loro decoltè.
Pare che anticamente, dato che le donne erano raccoglitrici – contadine, questo orpello servisse per difendersi dagli agguati dei grandi felini asiatici: tigri e leopardi. Notoriamente questi grandi predatori agguantano le loro prede sul collo. Ecco dunque che l’atavica paura ed il suo ancestrale rimedio sono diventate usanza e discutibile orpello. Infatti, se le donne adulte dovessero togliersi la colonna tubolare morirebbero miseramente. Inoltre è nota che questa pratica provoca lividi e profonde ferite non visibili dall’esterno proprio perché coperte dall’ottone.
Prendo questa usanza tribale come metro di paragone a quello che ci sta accadendo.
Il coronavirus è la nostra indiscutibile e feroce tigre. Un pericolosissimo predatore di cui nessuno è al sicuro e di cui tutti potremmo essere facili prede. I Governi hanno risposto con il distanziamento sociale, la reclusione in casa e con controlli a tappeto: vigili urbani, droni, telecamere spia, vecchie sui balconi che come cecchini postano sui social malcapitati passanti. Tutto questo è come la collana delle donne Kayan.
Un sistema rigido e pratico per evitare di essere preda del coronavirus.
Però, proprio come quelle donne Birmane, il rischio che questo collare diventi abitudine sia una possibilità non trascurabile per la nostra società.
A cinquantasei giorni di diligente clausura inizio anche io ad abituarmi a questo nuovo stile di vita.
Ma l’abitudine, in questi casi, è nociva.
Non dobbiamo mai perdere di vista la consapevolezza che la nostra nuova modalità di vita, causa coronavirus, abbia comportato l’inesorabile assenza dei diritti personali e comunitari.
Non c’è piattaforma informatica che possa supplire all’assenza di una vita activa.
La mia paura più grande è che questa orwelliana realtà si trasformi come l’orpello deformante delle donne Kayan. Si dimentichi inesorabilmente il pericolo del coronavirus e diventi scomodo orpello quotidiano.
E se questa collana la dovremmo indossare tutti, dobbiamo ricordarci che sotto ci lacereremo la carne e soffriremo malamente.
La campagna di mentalizzazione del messaggio “La vita non sarà più quella di prima, dobbiamo abituarci a vivere con questa modalità!” oltre che diventare martellante all’interno dei media, è una affermazione pericolosissima.
In Michigan, in queste ore la popolazione ha imbracciato le armi e sta protestando davanti i palazzi di Governo. Donald Trump furbescamente appoggia la potenziale protesta violenta per la fine del lock down. Probabilmente nello Stato dei Grandi Laghi andrà a finire come fu per i Pastori Sardi con Solinas e Salvini. Alla fine soffocherà anche quella protesta.
Ma se così non fosse?
Ribolle nelle case la paura di non farcela, di perdere il lavoro e la possibilità di disegnare il proprio futuro.
Serve una soluzione rapida e democraticamente riconosciuta. Non possiamo pensare di poter rimanere in questo limbo condominiale ancora per molto.
Il popolo ragiona con la pancia, ahimè, serve una comunicazione più autorevole ed efficace. Non si può limitare il dibattito alle sole soluzioni da portare in Ue o alla Federal Reserve.
Se la pandemia ha iniziato ad arrestarsi, i tumulti di un malcontento civile hanno appena iniziato a lievitare.