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Chiamateli padri, non “mammi”: il lavoro di cura prima e dopo il Covid.

- 03/05/2020


Domani, 4 Maggio, entreremo nella Fase 2 di questa emergenza sanitaria. Possiamo iniziare ad uscire ma non troppo, con le dovute distanze di sicurezza e con le mascherine, potremo rivedere i nostri tanto chiacchierati “congiunti” (ma non gli amici!) e possiamo rincominciare a farci due passi nell’isolato. Si inizia a respirare un po’ l’aria di ciò che eravamo prima del Covid, e si spera che la ripresa sia incominciata.

Tutto molto bello, ma tanti sono i controsensi di questa nuova fase. Uno fra i tanti è quello di aver sì fatto ripartire alcune attività lavorative, consentendo a migliaia di persone di tornare a lavoro, ma di non aver fatto riaprire le scuole, soprattutto asili e scuole elementari, portando avanti quindi un quesito importante: chi tiene i bambini a casa se i genitori vanno a lavorare?

Prima della pandemia c’erano diversi escamotage per i genitori lavoratori. Prima di tutto l’organizzazione dell’orario di lavoro in base agli orari scolastici dei bambini, quindi trarre vantaggio dalla scuola, l’assunzione (con contratto o in nero) di baby sitter o i nonni.

Tutti questi sistemi organizzativi sono però crollati il Giorno 1 del lockdown: le scuole sono state le prime strutture ad essere state chiuse, le baby sitter non potevano spostarsi da una casa all’altra per il rischio di contagio e i nonni, essendo più o meno anziani, sono fascia protetta durante il Covid, quindi più restii nello stare a contatto con altri.

Con la Fase 2 quindi moltissime madri e moltissimi padri usciranno e torneranno a lavoro, ma i figli con chi staranno in casa? A questa domanda non c’è una risposta ancora chiara ma mi auguro che arrivi presto una soluzione.

Da questo dilemma però, si è aperto un interessante dibattito, portando alla luce l’ennesima discriminazione di genere.

In questa fase vale la pena porre la nostra attenzione alla narrazione sbagliata e tossica del problema: i media raccontano la difficoltà dello gestire i figli come se fosse un problema esclusivo delle donne. I padri non vengono citati dai giornali, nessun articolo ricorda loro che, con la mancata apertura delle scuole, sarà anche una loro preoccupazione. O peggio ancora, quando si vuole anche solo accennare al lavoro di cura del padre vengono chiamati “mammi”.

Perché vengono chiamati “mammi” e non semplicemente “padri”? Perché nel nostro retaggio culturale, di stampo patriarcale, il lavoro di cura è destinata esclusivamente alle donne. Gli uomini, al massimo, possono “dare una mano”.

Copertina del libro di Emma “Bastava chiedere!”

Cos’è il lavoro di cura?

Se n’è parlato moltissimo di lavoro di cura e di carico mentale della donna quando c’è stata una diffusione a dir poco virale del fumetto di Emma “Bastava chiedere!”.

In questo fumetto si vede una donna completamente sommersa di lavoro di casa. Dopo una serie di mansioni, che portano ad un alto livello di stress alla donna (carico mentale) il marito, rilassato sul divano, le chiede se fosse tutto ok. Quando la donna gli fa presente che passa le giornate a sistemare casa e a badare i bambini e che lui era semplicemente seduto sul divano senza fare nulla in casa, il marito le risponde “se ti serviva una mano bastava chiedere!”.

Quante volte vi è capitato di assistere ad una scena simile? Quante volte avete vissuto una scena simile? Io tante, troppe.

Il femminismo non è un concetto poi così tanto astratti, la parità si riversa anche nella vita di tutti i giorni e nella quotidianità. Se il lavoro di cura non fosse prettamente femminile, i mariti/compagni/partner semplicemente sistemerebbero la casa assieme alla donna senza chiedere e senza aspettarsi un applauso da nessuna. Perché sarebbe semplicemente un loro dovere.

Per lavoro di cura non intendiamo solo la “cura della casa” e “cura del bambino”, ma un insieme di mansioni che vengono date per scontate, come ad esempio l’educazione e la salute dei figli, cucinare per la famiglia, badare ai genitori anziani, fare la spesa.

Il concetto del lavoro di cura è poi facilmente comparabile ad alcuni settori lavorativi anch’essi categorizzati in maniera automatica come femminili: il settore pulizie, assistenza nelle case di riposo, il baby sitting.

E’ quindi la violenza patriarcale che assegna “naturalmente” alle donne le attività riproduttive di cura, costringendole nelle mura domestiche o addossando alle loro spalle il doppio carico del lavoro dentro e fuori casa o segregandole esclusivamente in alcuni settori lavorativi. Ci fa pensare che siamo le più portate a farlo.

Il concetto di cura è poi così tanto introiettato nelle donne che molte non delegano il lavoro, per paura di scomparire in una cultura in cui il valore della donna riposa ancora saldamente nella maternità: se rinuncia diventa automaticamente sola ed egoista.

Ci serve una società che riveda una volta per tutte il concetto di cura e che accetti il fatto che gestire il quotidiano del proprio figlio non scalfisce la mascolinità di nessuno e non farlo, o farlo meno, non intacca la femminilità di nessuna, ma così non è.

Infatti, se un uomo prova ad accudire il proprio genitore malato od un figlio, subito diventa un “mammo” improvvisato che, nel nostro immaginario collettivo, lo si vede come buffo, simpatico con una parnanza tutta sporca che fa finta di cucinare per tutta la famiglia, ma finisce di far cadere la cena a terra. (A meno che l’uomo in questione sia Cannavacciuolo. Ma guarda caso, le donne che cucinano sono cuoche, gli uomini chef).

Diamo come giustificazione che “le donne sono più brave a cucinare e a badare la casa!”. Ma le donne sono più brave nelle faccende di casa perché sin da piccole sono state abituate ad imparare dalla mamma, cosa che non avveniva con i figli maschi. Ci hanno imposto di imparare sin da piccola la cura della casa e dei figli, perché lo stereotipo ci vuole come delle brave casalinghe.

L’immagine è uno dei «Sueños» di Grete Stern, fotografa e artista che lavorò e insegnò alla scuola del Bauhaus.

Il lavoro di cura prima e durante la pandemia.

Prima della pandemia le donne passavano 13 ore in più a settimana degli uomini ed oggi con questa emergenza sanitaria il lavoro domestico non retribuito è aumentato considerevolmente, diventando h.24.

Con questa pandemia tutte le sfaccettature del lavoro di cura si sono ingigantite e sono ricadute tutte sulle spalle delle donne anche a causa della mancanza di supporto dello Stato. Si è spezzando così un semi-equilibrio raggiunto faticosamente, accentuando ancora di più il “destino biologico” delle donne nell’accudimento del prossimo, dandolo per scontato e accettandolo.

Infatti sono le donne che ad oggi che si devono chiedere se devono scegliere tra figli e lavoro.

Il Governo, che decide di non farsi carico di questo dilemma, ci fa capire che non è tra le sue priorità. Perché si è dato per troppo tempo per scontato che le donne badino i figli e non possono essere nient’altro. Ciò ha alla luce alla discriminazione di genere che, purtroppo, esisteva anche prima. Ma mai come adesso si è inasprita.

Uno degli slogan più sentiti in questo periodo, che secondo me riassume perfettamente tutta la rivoluzione che ci sta accadendo intorno è “Non torneremo alla normalità perché era la normalità il problema”.

Ed è esattamente così e , purtroppo, non solo per il lavoro di cura.

Bibliografia:

Donne e lavoro, perché la pandemia rischia di spingerci indietro.

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Classe 1990, Pescarese di adozione. Attivista transfemminista e co-fondatrice del Collettivo Zona Fucsia, si occupa da sempre di divulgazione femminista. È speaker radiofonica e autrice in Radio Città Pescara del circuito di Radio Popolare con il suo talk sulla politica e attualità "Stand Up! Voci di resistenza". Collabora nella Redazione Abruzzo di Pressenza. È infine libraia presso la libreria indipendente Primo Moroni di Pescara e operatrice socio-culturale di Arci.

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