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LA TERRA DI DIO _ Anche sul suolo più ostile può nascere un fiore (recensione)

- 11/06/2021


LA TERRA DI DIO (titolo originale : God’s Own Country) è un film del 2017. Una storia d’amore universale con due interpreti magnetici che faranno sobbalzare il vostro cuore.

Tra le fredde campagne dello Yorkshire, il giovane Johnny Saxby porta avanti la fattoria di famiglia dopo che suo padre è stato colpito da un ictus.
La monotonia della sua quotidianità trova sfogo solo nelle serate passate a ubriacarsi e fare sesso occasionale nei locali del villaggio.
Ma l’arrivo di Georghe, un ragazzo rumeno chiamato ad aiutarlo nel lavoro, spezzerà questa routine apportando nella vita di Johnny qualcosa che lo troverà completamente impreparato.

L’opera prima di Francis Lee è un dono prezioso dal sapore inaspettato, come quello di un frutto che ci viene offerto da quella “terra di Dio” che, per quanto possa sembrarci a volte ostile o inconoscibile, è pronta ad accogliere tutti i suoi figli.

Sarebbe un errore accostare questo film a un altro celebre titolo di un noto regista che fa lui pure Lee di cognome.
Sebbene le premesse possano essere simili a “I SEGRETI DI BROKEBACK MOUNTAIN” di Ang Lee, qui la storia d’amore dei due giovani non crolla sotto il peso della vergogna o di una coltre drammatica.

Il regista inglese, ispirandosi al proprio vissuto, costruisce una sceneggiatura dai contorni quasi documentaristici (vi è una grande attenzione per i dettagli: la telecamera più volte si sofferma sulle mani che toccano il duro suolo o la morbidezza della pelliccia delle pecore o nel cogliere la nascita o la morte di una piccolo agnello ) in cui la passione tra i due uomini non incontrerà ostilità da parte dalla comunità o della famiglia. Nessun atteggiamento di natura omofobica remerà contro questo fiore che sboccia tra le ruvide pietre dello Yorkshire.

Semmai è la Natura “a dettare legge” e a scandire il tempo e la vita del giovane allevatore – interpretato con credibilità da un bravo Josh O’Connor – che non ha tempo da dedicare a se stesso se non alla cura del bestiame e dei compiti assegnategli da un padre infermo ma sempre vigile e pressante.

Ed è sempre la natura a fare da specchio ai moti interiori dell’animo umano.
La splendida e malinconica fotografia di Joshua James Richards si perde tra le campagne e le valli sterminate che spariscono lungo l’orizzonte o si sofferma su quelle rocce che sono come il cuore del ragazzo ancora incapace di ascoltarsi; o ancora vaga per quei fumi e quella nebbia che rappresenta quel passo nell’ignoto che siamo tutti costretti a fare se vogliamo ritrovare la strada di casa o noi stessi.

È in questo Eden primordiale che il sensuale e dolce Georghe – che ha la bellezza e le sfumature del magnetico Alec Secarenau – diventa una figura paragonabile a quella di una Eva che invita il suo Adamo ad assaporare la mela della conoscenza dei sentimenti.
Una carezza, un fiore su di un tavolo, una mano che viene in soccorso nel momento del bisogno, uno sguardo complice: sono tutti doni sconosciuti che il duro allevatore accoglie e li fa propri.
Grazie alla vicinanza di questo ragazzo  Johnny si riconcilia con se stesso e con il padre solo in apparenza severo; fiorisce in lui la speranza di un futuro migliore.
Ma più importante egli impara la cosa più semplice ma forse anche la più difficile: impara a sorridere.
Abbraccia la felicità.

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Ossessionato dal trovare delle costanti nelle incostanze degli intenti di noi esseri umani, quando non mi trovo a contemplare le stelle, mi piace perdermi dentro a un film o a una canzone.

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