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TOM À LA FERME (2013)

- 19/06/2018


Dopo la morte di Guillaume, Tom lascia la confortevole Montréal, deciso a conoscere la famiglia del suo fidanzato defunto.
Giunto in una fattoria tra le campagne canadesi, Tom si rende presto conto che la madre di Guillaume sia del tutto ignara dell’orientamento sessuale del figlio perduto.
Con stupore fa la conoscenza anche del fratello maggiore del suo amato, Francis, omofobico e violento, che obbliga Tom a mentire sulla sua relazione per non turbare la madre.
Nonostante l’ostilità sia più che evidente, si insinua presto qualcos’altro tra i due ragazzi: una fascinazione mista a repulsione che renderà la permanenza di Tom alla fattoria molto difficile.

Quarto film dell‘enfant prodige Xavier Dolan e il primo tratto da uno script non suo, ma basato sull’omonima opera teatrale scritta da Michael Marc Bouchard che è chiamato a firmare anche la sceneggiatura.

Con questo titolo il giovanissimo Dolan si conferma  una promessa del cinema moderno e anzi si erge ad autore complesso in cui convivono sapori acerbi, tipici della sua età, e scenari di autentica luminosità.
Il suo sguardo attento e curioso si impone oltre l’obiettivo della telecamera e ci riporta tutta la bellezza e le interferenze del cuore, della sessualità, della giovinezza, della rabbia, della follia, della vita.

Il personaggio di Tom – interpretato dallo stesso Dolan – è quel fulmine a ciel sereno che spezza la quiete di una realtà provinciale e arretrata; coi suoi capelli biondissimi e mossi, come quelle spighe di grano che si stagliano contro il cielo, ferisce lo sguardo; i suoi occhi caldi e profondi e la sua bocca imbronciata, incastonati in un viso da angelo/alieno precipitato sulla terra, sprigionano una sessualità i cui contorni sono sbavati e confusi.

E sono questi elementi che incendiano e scuotono l’animo e la violenza di Francis – un imponente e sessuale Pierre-Yves Cardinal – che vede in Tom la conferma della sessualità del fratello defunto. Ma la bellezza efebica di Tom mettono in luce anche desideri mal celati del giovane ragazzo di campagna su cui gravano le condizioni di una fattoria da portare avanti e il rispetto della gente della piccola cittadina.
Francis è a tutti gli effetti un perdente, schiacciato dal peso delle colpe, imprigionato in un ruolo e in una figura che solo tramite la forza e la violenza sa prevalere sull’altro.

Il dramma di Xavier Dolan, accompagnato dalle splendide musiche di Gabriel Yared ( premio oscar per “IL PAZIENTE INGLESE” ), precipita presto nel thriller psicologico con richiami alle atmosfere hitchcokiane, ma senza perdere quell’impronta originale riscontrabile in tutti i suoi lavori, precedenti e futuri.
Dopotutto egli non solo si limita a dirigere e recitare: Dolan è spesso anche scenografo, costumista, sceneggiatore, montatore e produttore delle sue opere.
Il suo ego spesso sconfina dal selciato ma è proprio il suo genio incontenibile a riempire e ad arricchire le inquadrature, colorandole delle sue ossessioni e del suo amore per il cinema.

Ogni suo film è dunque un autoritratto, una sequenza nevrotica di polaroid che restano negli occhi e nella mente dello spettatore; dove spesso le musiche sono coprotagoniste ed elemento essenziale per raccontare l’anima dei suoi attori.
E anche questa opera con tutte le sue piccole imperfezioni – di intensità, di dialoghi – è materiale che incendia e corrode la pelle; è come la sensazione di una mano forte che ci stringe il collo fin quasi a levarci il respiro prima che un estraneo venga a baciarci; è la ruvidezza della barba che ferisce le labbra; è quello sguardo fisso che ci spoglia di ogni inibizione; è una corsa in auto, è  una fuga; è una liberazione e un ritorno a noi stessi, dopo aver assaggiato l’inferno.

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Ossessionato dal trovare delle costanti nelle incostanze degli intenti di noi esseri umani, quando non mi trovo a contemplare le stelle, mi piace perdermi dentro a un film o a una canzone.

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