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Il 15 Gennaio diciamo no: giornata d’azione delle donne lavoratrici.

- 13/01/2021


Dicono che questo “secondo lockdown” non ci stia pesando come il primo, e forse un po’ è vero. Le restrizioni non sono come quelle di Marzo: molte più persone rispetto a prima stanno continuando una vita molto simile alla tanto agognata “normalità”. Una normalità che da quasi un anno tutti noi aspiriamo (che poi, cos’è la normalità?!).

Ma è inutile nascondere che in questa seconda ondata la batosta più grande l’hanno avuta le donne, soprattutto nell’ambito lavorativo.

Trattai della tematica in un mio articolo riguardante la cura, nato da una mia riflessione in cui moltissime donne, di fronte alla chiusura delle scuole, hanno dovuto ridurre le ore di lavoro o addirittura lasciarlo per poter badare all’istruzione dei propri figli e quindi ad un carico domestico maggiore.

Ciò ha portato, chiaramente, ad un ulteriore sbilanciamento nel mondo del lavoro e l’ago della bilancia punta sempre contro le donne.

Non tratto spesso di questa tematica poiché sono dell’opinione che ognun di noi dovrebbe trattare solo dei temi che si conosce a fondo, ma credo che valga la pena trattare uno dei più grandi effetti collaterali della quarantena e della pandemia: la disoccupazione e la precarietà femminile.

In occasione della manifestazione nazionale del 15 Gennaio indetta dal Movimento Femminista Proletario Rivoluzionario ho avuto il piacere di intervistarle, anche per pubblicizzare la loro importante iniziativa.

Qual è la situazione delle donne lavoratrici e come la pandemia ha reso la situazione ingestibile? 

L’emergenza del coronavirus ha amplificato oggettivamente quella che era una condizione di sfruttamento e di oppressione che la maggioranza delle donne proletarie già viveva nel nostro paese.

L’emergenza ha investito tutti gli aspetti della vita delle donne, il lavoro/il non lavoro, il salario/il non salario, il carico dei servizi sociali, la questione della violenza e dei femminicidi, la questione dell’aborto, ecc.

Sulla questione del lavoro, da un lato per il coronavirus/lockdown vasti settori di lavoratrici dall’oggi al domani hanno perso il lavoro per la chiusura o sospensione di alcuni settori, come le cooperative sociali/servizi sociali/di assistenza nelle scuole, nei centri diurni per disabili, il settore turistico, il settore della ristorazione, del commercio, delle pulizie/servizi, come alcune fabbriche; tantissime lavoratrici che vivevano una situazione già di precarietà dopo il lockdown si trovano in una situazione di non rientrare più al lavoro.

Le misure di ammortizzatori sociali del governo per chi ha dovuto andare a casa si sono rivelate assolutamente insufficienti, non sono state ancora liquidate totalmente, soprattutto al Sud, e hanno tagliato comunque almeno il 20%-40% dei salari, spesso già molto bassi.

In tutto un altro settore dove le lavoratrici sono soprattutto immigrate occupate come badanti, colf, lavoratrici domestiche, le donne si sono ritrovate in una situazione non solo pesantissima di non lavoro (e per tante di perdita di casa), ma anche nei primi mesi del lockdown fuori dalle misure di sostegno salariale del governo. Poi con il Decreto rilancio il governo ha stanziato un’indennità di 500 euro mensili per i mesi di aprile e maggio 2020 ma con paletti e ottica circoscritta, spettava  ai collaboratori domestici già in possesso di un regolare contratto di lavoro alla data del 23 febbraio 2020.

Tre i requisiti richiesti per richiedere il bonus: non convivenza con il datore di lavoro; contratto regolare in essere alla data del 23 febbraio 2020 superiore a 10 ore a settimana, il domestico non deve percepire altri succisi. Sappiamo bene come tantissime di queste lavoratrici lavorano purtroppo a nero o con contratti anche di meno ore rispetto alle 10 settimanali.

Dall’altro lato, le lavoratrici che hanno continuato a lavorare si sono ritrovate  in una condizione non solo di più sfruttamento ma addirittura di nessuna tutela, prevenzione per la loro salute e vita, anche a rischio di morire, come è accaduto per es. nella logistica

La prima linea è stata sicuramente costituita da tutte le lavoratrici che lavorano nel mondo della sanitàdegli ospedali del Covd-19Le dottoresse, le infermiere, le operatrici socio sanitarie, le donne delle ditte delle pulizie si sono ritrovate nel vortice di questa emergenza a lavorare in una situazione di orari massacranti, mancanza di dispositivi di protezione e sicurezza adeguati; una situazione che ha fatto emergere in maniera palese il massacro che è stato fatto alla sanità da tutti i governi al potere e che oggi viene scaricato pesantemente sulla pelle, oltre che dei malati, dei lavoratori e lavoratrici, mettendo a rischio la vita – più di 170 medici sono morti per Covid-19, come decine di infermiere e Oss: Rosaria alla Rsa di Milanole due infermiere a Bergamo e Cremona, ecc. come Daniela a Monza di 34 anni suicidata/uccisa dallo stress/disperazione. Tutte restano pesantemente nel conto da far pagare a padroni, governo, Stato borghese.
Se le lavoratrici nella sanità si ribellano e pretendono almeno mascherine, guanti rischiano di essere licenziate, come è avvenuto nell’ospedale di Livorno e di Genova.

Tante operaie di fabbrica hanno dovuto continuare a lavorare anche durante il lockdown perché quello che conta per i padroni, per il capitale è il plusvalore, il profitto e non la vita degli operai e delle operaie, per cui è successo che si è continuato a produrre anche in quelle fabbriche non essenziali, e senza le misure di sicurezza necessarie. Qui solo gli scioperi spontanei degli operai in diverse fabbriche hanno costretto il governo a fare una selezione tra le cosiddette fabbriche non essenziali e quelle essenziali – ma sotto la pressione di industriali diverse fabbriche e fabbrichette man mano hanno riaperto.

Per le operaie che hanno continuato a lavorare nelle fabbriche alimentari o farmaceutiche, le lavoratrici dei supermercati, al di là dei protocolli che il governo ha firmato con i sindacati confederali, sono perdurate diverse situazioni in cui le operaie hanno continuato a lavorare senza alcuna sicurezza, a rischio di ammalarsi gravemente.

Per non parlare di tutto il settore delle lavoratrici dell’agricoltura, in cui stanno tante donne migranti. Queste o hanno perso il lavoro o per loro, come moderne schiave ad una situazione di lavoro durissima si è aggiunto il coronavirus e queste lavoratrici sono lasciate ancora più allo sbando per mesi. La sanatoria del governo si è rivelata una truffa (una “regolarizzazione” che non è solo insufficiente, la questione principale è che è stata fatta per dare braccia alle aziende da sfruttare per il tempo necessario al lavoro (max un anno) e ci sono state proteste delle migranti e dei migranti contro questo provvedimento governativo annunciato dalle lacrime più che ipocrite della Bellanova.

Il governo durante l’emergenza è uscito con tutta una serie di decreti, però pochissimo o quasi niente è stato posto per quanto riguarda la condizione di vita delle donne; verso cui, invece, la misura principale: “stare a casa” è risultata e risulta controproducente e a rischio.

Perché quando si dice “state a casa, state chiuse” e ci hanno fatto vedere pubblicità in tv ad hoc con scene di tranquillità e rilassatezza “che bello stare dentro le case” in realtà questo non è stato e non è assolutamente vero e corrispondente alla realtà.

Stare chiuse a casa 24 ore su 24 per la maggioranza delle donne, significa vedersi scaricare in maniera ancora più pesante tutto quello che è il lavoro di cura e della famiglia dei figli, del marito, dei parenti anziani, il lavoro domestico, ecc., significa subire uno stress psicologico che ti fa ammalare più del coronavirus.

E’ come se si desse per scontato che per le donne “restiamo a casa” è normale, sarebbe compatibile con il ruolo prevalente che questo sistema borghese affida alle donne, di cura, assistenza, riproduzione, “ammortizzato sociale”. Il governo ha approfittato anche di questa situazione, per tenerci più incatenate al ruolo che questa società vuole per noi, principalmente: moglie, madre, “supplenti dello stato”.

La misura di bonus spesa, che si traduce in poche decine di euro a poche famiglie “indigenti” quando tante famiglie erano senza salario, è stata ridicola e offensiva, una indegna elemosina, contro cui giustamente tante persone, soprattutto donne, si sono ribellate rifiutandosi di pagare la spesa, come nelle proteste a Palermo, a Napoli.

Anche per quelle donne che hanno lavorato a casa in smart working, vedi per esempio l’ampio settore della scuola e del pubblico impiego, questa soluzione si è trasformata nella maggiora parte dei casi in una altra catena: le donne contemporaneamente mentre lavorano si devono occupare dei bambini, li devono seguire nella didattica a distanza, devono fare le pulizie, devono cucinare; cioè devono stare continuamente a lavorare senza limiti di orario, con un pesantissimo stress psicofisico.

Padroni e governo hanno realizzato la perfetta “conciliazione di lavoro e famiglia”, non separandoli, ma intrecciandoli minuto per minuto, rendendo così palese il doppio sfruttamento e oppressione.
Siamo tornati al lavoro a domicilio, in chiave moderna, con cui il capitale realizzava e realizza “due piccioni con una fava”: allungamento dei tempi dello sfruttamento, riduzione dei salari, controllo del lavoro (oggi anche più facilitato con i mezzi informatici). Mentre viene garantito il ruolo di riproduzione della forza-lavoro delle donne col lavoro domestico. Vedi le lavoratrici immigrate per lo più di Bergamo/Brescia

Il governo nel decreto di agosto ha inserito il bonus per le casalinghe invece di porre misure per il lavoro per le donne, un bonus indecente che prevede dei corsi professionali per donne che scelgono di fare le casalinghe (come se fosse uno dei tanti hobby) per il governo le donne casalinghe devono restare casalinghe ma forse più acculturate!

Ma stare chiuse dentro casa è significato anche esasperare e amplificare le situazioni in cui le donne sono costrette a vivere 24 ore su 24 con mariti, partner violenti. Nelle settimane del lockdown decine sono stati i femminicidi, le varie forme di violenza sessuale, maltrattamenti incentivati dalla convivenza forzata, come la ragazza uccisa a Messina dal suo compagno. Per le donne che dalle stesse statistiche sono risultate più forti, meno contagiate dal coronavirus, la morte viene più stando chiuse in casa col proprio assassino che dal coronavirus. E la tragica beffa viene dallo stesso Stato, come è successo a Taranto, in cui un giudice ha mandato ai domiciliari un marito che aveva tentato di uccidere la moglie.

Quale è la soluzione del governo? Delegare la difesa dai femminicidi alla polizia, predisponendo un’ app a cui le donne in pericolo possono chiamare. Una soluzione assolutamente inutile e anche ambigua. Inutile perché le donne che si sono rivolte alla polizia hanno già sperimentato come quelle denunce rimangano chiuse in un cassetto e poi sono state uccise lo stesso. Ma diciamo anche ambigua perché l’APP della polizia a cui ci si dovrebbe rivolgere è la stessa con cui si invitavano le persone a segnalare il bullo o il drogato o il clochard, o il migrante creata all’insegna di mobilitare i cittadini a farsi parte attiva della politica securitaria, del clima di controllo dell’altro che diventa il mio nemico; alla stessa stregua di chi in questo periodo stava dietro le finestre a vedere se c’era il cittadino che scendeva per strada per segnalarlo alla polizia, e quel cittadino diventa il tuo nemico principale deviando da quello che è invece il vero nemico, cioè il governo. Tutto l’opposto di un clima attivo di solidarietà/unità che deve esserci tra le donne e che solo può difendere dai femminicidi.
Nella piattaforma dello sciopero delle donne si dice: allontanamento dalle case di mariti/conviventi violenti; interventi immediati contro i denunciati per violenze, stalking, maltrattamenti; case rifugio, centri antiviolenza, case delle donne.

Poi ci sono le donne che sono messe in conto preventivo dei dati dei decessi per coronavirus.
Sono le immigrate nei CPR, le detenute che sono semplicemente cancellate, esistono solo quando si ribellano per essere duramente represse.

Nel Cpr di Ponte Galeria le immigrate vivono nel terrore di prendersi il coronavirus, sono in 6 in stanze piccole, mangiano, si lavano ammassate come prima. Lo stesso per le donne nelle carceri, da Poggioreale alle Vallette di Torino, rischiano ogni giorno la vita, nessuna assistenza sanitaria è garantita, anzi nell’emergenza è diminuita. Le “distanze” non valgono per loro. Le rivolte in tante carceri hanno gridato questa morte annunciata dello Stato. Ma questo non entra nei decreti del governo ma solo nei massacri, punizioni fatte dalle forze dell’ordine.

E oggi sono soprattutto le donne che continuano fuori dalle carceri le proteste, chiedendo che i loro familiari siano trattati come tutte le altre persone, stando a casa nel periodo dell’emergenza.

Ma questa emergenza ha voluto dire anche tanto altro per la vita delle donne.
Le donne hanno partorito nei corridoi dei pronto soccorsi, da sole, senza alcun parente ad assisterle. Le donne oggi non possono abortire. Se già prima le donne avevano difficoltà enormi ad abortire in un paese dove c’è un altissimo tasso di obiettori di coscienza e ospedali assolutamente inadeguati, oggi con il collasso degli ospedali si trovano in una condizione più pesante.  L’approvazione di potere accedere all’uso della Pillola Ru486 senza ricovero obbligatorio è sì un passo in avanti ma resta sempre l’ostacolo più grave che è appunto l’obiezione di coscienza.

Se questa è la situazione, è altrettanto vero che essa ha reso ancora più necessario per le donne ribellarsi, unirsi e lottare ancora più di prima.

Quest’anno l’8 marzo e lo sciopero delle donne sono caduti proprio in piena emergenza coronavirus. Hanno fatto di tutto per impedire lo sciopero ma il MFPR lo ha fatto lo stesso. Lo sciopero delle donne quest’anno accanto al suo significato politico ideologico di tappa importante del cammino della lotta rivoluzionaria delle donne, ha avuto un valore aggiunto, di essere una sfida contro lo Stato e il governo che hanno cercato di vietarlo, annunciando pesanti sanzioni. Ma tante operaie, lavoratrici, precarie, sfidando i divieti, hanno detto: “Se siamo buone a lavorare fianco a fianco, siamo buone a scioperare!”. E questo sciopero ha mostrato ancora più chiaramente che c’è un femminismo piccolo e medio borghese che ha accettato i divieti, ha accettato di “stare a casa” rinunciando alla lotta e facendosi docile anello dell’appello alla “solidarietà nazionale” dello Stato borghese.  Il coronavirus ha avuto il “merito” di spazzare via le parole vuote. Le piccolo borghesi si sono zittite, il movimento femminista/Nudm non ha voluto rappresentare e dare voce, se non in minima parte, alla necessaria alterità del movimento delle donne;  e c’è  un femminismo proletario rivoluzionario che diceè necessaria ancora più ribellione, più lotta, rafforzare la marcia delle donne per la rivoluzione, per mettere fine alla vera “pandemia”, il sistema del capitale che sempre più mostra il suo inevitabile volto patriarcale contro le donne.

Nell’emergenza coronavirus sono le lavoratrici, le proletarie nella loro grave, e peggiorata dal lockdown, condizione, sia di lavoro che di vita che sono emerse con forza, e in maniera anche drammatica, abbiamo detto dei casi emblematici di suicidi nelle lavoratrici della sanità e l’intensificazione dei casi di femminicidi.

Ma queste donne non hanno potuto avere voce come movimento organizzato che ne rappresentasse le istanze e bisogni, ma la prepotenza con cui è tornata la condizione delle donne proletarie è in un certo senso un bene. L’emergenza coronavirus ha posto in maniera netta e senza scampo che questo sistema capitalista è la causa e il cancro dell’umanità, e che le donne non hanno da aspettarsi niente da esso ma hanno da rompere le catene che si fanno sempre più strette. E non è un caso che sono state, anche nei mesi di emergenza, le lavoratrici, le precarie, le proletarie, la maggioranza delle donne che non ce la fa a vivere ad aver ripreso la scena!

Certo sono ancora poche, ma sono state e sono l’avanguardia, un esempio per tuttedalle lavoratrici della sanità che hanno comunque, in tanti modi, portato fuori la loro durissima realtà di sfruttamento, di contagi, fino ai troppi casi di morte; alle lavoratrici delle scuole costrette al lavoro in casa ma senza certo futuro; alle precarie delle mense, delle pulizie, degli asili, dei servizi di assistenza scolastici, che hanno lottato sempre da Palermo, a Taranto e stanno continuando anche in questi mesi in difesa del posto di lavoro e migliori condizioni di lavoro, per un lavoro stabile; alle lavoratrici delle Poste che hanno fatto il primo sciopero nazionale dopo il lockdown (postina di Torino sanzionata perché ha chiesto dove poteva urinare… sostituzione collega con prestazioni straordinarie) alle lavoratrici degli alberghi (in uno degli alberghi di Cala Gonone in Sardegna i nuovi padroni, alla riapertura dopo il lockdown, hanno deciso di ricattare le lavoratrici che da 20 anni vi lavoravano con una proposta inaccettabile!  “Più ore e meno paga, orario full time per tutte, prendere o lasciare – raccontano su Fb le operatrici che hanno lasciato la struttura – Molte di noi si sono rifiutate, le più temerarie hanno accettato, ma dopo 12 giorni di lavoro hanno rassegnato le dimissioni: le condizioni contrattuali non venivano rispettate), dei call center…

Anche qui sono state soprattutto le operaie la punta avanzata della ribellione delle donne: a giugno/luglio le combattive operaie, quasi tutte immigrate, della Montello (BG) in sciopero contro cassintegrazione/licenziamenti che devono lottare contro i padroni ma anche contro la Cgil filo aziendale che oggi stanno continuando a lottare; a maggio, le operaie dell’Electrolux di Susegana che hanno fatto lo sciopero delle mascherine contro i ritmi di lavoro; poi, le operaie della Meridi s.r.l in Sicilia per il diritto al salario e alla sicurezza; le lavoratrici delle mense della Fca a fine luglio; e tante altre piccole e medie fabbriche ecc.

Queste combattenti non si sono fermate, sia dalle case, sia sui posti di lavoro, sia appena possibile con gli scioperi, nei presidi, nelle piazze. Queste sono le “eroine”! 

Sono state e sono un avamposto per porre la necessità dell’organizzazione del nostro fronte proletario rivoluzionario perché tutta la vita deve davvero cambiare. 

Noi donne per la nostra condizione portiamo avanti una denuncia, una critica, una prospettiva, una lotta a 360°, che tocca tutti gli aspetti della condizione di vita, di lavoro, a quello familiare, a quello sessuale, a quello culturale, a tutti gli aspetti dell’umanità! Questo ci deve incoraggiare, ci rende più determinate.
In questa “emergenza” vogliamo affermare ancora di più la “nostra emergenza”: che tutta la nostra vita deve cambiare!

Le lotte che stavamo facendo prima le continuiamo e anzi nuove lotte si devono fare e facciamo.
Questa emergenza ci pone la necessità di riorganizzarci anche in forme nuove, in forme creative.
Noi diciamo NO alla chiusura, a volerci isolare, individualizzare.
SI all’unità, al collegamento, alla socializzazione, partendo anche dai caseggiati, dai quartieri, dai momenti in cui stiamo in fila a fare la spesa, ecc.;
Ci vuole in questo momento la solidarietà attiva, l’aiuto reciproco, non certo per scaricare lo Stato dal rispondere ai bisogni delle donne ma per rafforzare l’unità e la mobilitazione delle donne contro questo sistema.
Utilizziamo anche i mezzi informatici in maniera più creativa e più larga per collegarci a livello nazionale. Usiamo questo tempo maggiore in casa per studiare, per armarci teoricamente; perché per le donne, la teoria rivoluzionaria è un’arma da rivolgere con più forza e prospettiva contro questo sistema borghese. Usiamo il tempo per armarci la testa, perché si armino le nostre mani, i nostri corpi.
Organizziamo una giornata in cui come donne facciamo sentire forte la nostra protesta e le nostre ragioni di lotta.

Perché il 15? È a livello nazionale? Quali associazioni e movimenti hanno aderito? 

Per PASSARE DALLA DENUNCIA ALL’AZIONE! Come abbiamo detto nelle due assemblee nazionali che abbiamo fatto il 27 settembre e il 19 novembre e dare un primo concreto segnale di lotta di collegamento tra le donne in lotta ma anche con le donne che ancora non lottano ma vorrebbero farlo, o per donne che non si trovano nelle condizioni di farlo per vari motivi di oppressione sfruttamento  S è una giornata lanciata a livello nazionale…. Aderiscono donne lavoratrici precarie disoccupate immigrate organizzate in sindacati combattivi e classisti come come lo Slai Cobas per il sindacato di classe o il Si Cobas , compagne di collettivi femministi il Movimento Femminista Proletario Rivoluzionario, associazioni che si occupano delle condizioni delle donne detenute per esempio come Associazione Yairaiha Onlus per esempio, donne che lottano per la casa , per l’ambiente… ma anche donne singole … 

Parlatemi del vostro movimento: quando è nato, quali iniziative porta avanti e quali obiettivi di pone

Le donne che lottano hanno una marcia in più che chiaramente proviene dalla condizione di noi donne. Siamo attaccate a 360 gradi, sia nel lavoro domestico, sia in famiglia, sia nelle relazioni sessuali, sia sul posto di lavoro. Questa è la condizione oggettiva da cui nasce la marcia in più. Non è un valore morale, è un’analisi scientifica, un elemento che deve essere riconosciuto da tutti, deve essere riconosciuto da ogni organismo di lotta, da ogni sindacato di base, da ogni organizzazione rivoluzionaria…

Questa spiega il perchè noi diciamo che la battaglia delle donne non è un’appendice della lotta di classe ma è interna alla lotta di classe, e porta una visione più complessiva. Quando le donne lottano portano nella lotta tutto il peso della loro condizione, anche familiare, dei figli, ecc, e nello stesso tempo portano in famiglia la forza della trasformazione delle lotte.

La lotta delle donne deve essere finalizzata a che “tutta la vita deve cambiare. Questo è possibile solo con il rovesciamento di questo sistema sociale borghese capitalista di oppressione, di violenza e sempre più pieno di orrore, che verso le donne si manifesta nella maniera più spudorata, e più brutale con i femminicidi. In questo senso questa parola d’ordine racchiude la necessità della battaglia a 360° gradi delle donne.

– In questo senso affermiamo che la lotta delle donne deve essere “irriducibilmente contro”. Oggi irriducibilmente contro il moderno fascismo, razzismo, sessismo. “Irriducibilmente” vuol dire che non c’è settore popolare proletario più delle donne per cui le riforme non possono essere l’obbiettivo, per cui niente può essere meno di un cambiamento totale, un cambiamento rivoluzionario. Certo, ogni giorno facciamo le lotte su aspetti anche specifici della nostra condizione, però in queste lotte da parte nostra deve crescere la denuncia, la combattività, la prospettiva che questa lotta è all’interno della lotta più generale.

– Sulla partecipazione delle donne nelle lotte sindacali e la differenza con lo “sciopero delle donne”.

Una cosa è la partecipazione normale delle lavoratrici, spesso maggioritaria, nelle lotte sindacali, altra cosa è la partecipazione allo sciopero delle donne. Sono due livelli diversi e anche scopi diversi. E’ la differenza tra il ruolo nel sindacato seppur di base, di classe delle lavoratrici e l’”organizzazione come donne”. Sono due livelli che chiaramente a volte si intrecciano che però non hanno la stessa funzione.

Quando le lavoratrici lottano, le compagne del femminismo proletario rivoluzionario portano la coscienza della necessità di allargare la lotta, del protagonismo delle donne, che non scaturisce spontaneamente dalla lotta sindacale. Ci vuole un intervento “esterno” alla vertenzialità della lotta, che risponde alla vecchia frase: “non mi dire quello che già so dimmi quello che non conosco”.

Di seguito il comunicato da divulgare per poter aderire alla manifestazione del 15:

Alle lavoratrici, precarie, disoccupate, migranti, giovani… in ogni posto di lavoro – città – territorio…Comunicate le iniziative che si faranno così da creare un collegamento reale e combattivo da tutti i posti di lavoro, da ogni città… Il 15 gennaio Giornata di azione delle donne/lavoratrici. Una giornata all’insegna della parola d’ordine “Noi la crisi non la paghiamo le doppie catene unite spezziamo” – contro padroni e governo che scaricano doppiamente sulle donne la loro crisi economica e pandemica, all’interno di un attacco, aumento della condizione di sfruttamento, di attacco alle condizioni di lavoro, di non lavoro, di attacco ai salari, di non salario non reddito, di precarietà, licenziamenti, disoccupazione, di discriminazione, di oppressione, repressione… sia pratica che ideologica, verso tutta la vita delle donne.Una giornata per portare ovunque la piattaforma delle donne/lavoratrici decisa nelle assemblee nazionali delle donne , perché arrivi e si discuta in tanti posti di lavoro, in tante realtà delle donne, perché diventi arma unitaria di lotta; pensiamo a volantinaggi, assemblee sui posti di lavoro, nei quartieri, nelle scuole, ecc., presidi, iniziative verso palazzi e luoghi emblematici di questo sistema capitalista-patriarcale; e altre iniziative che ogni realtà di lavoratrici, donne proletarie, compagne, studentesse potranno decidere e articolare secondo la situazione concreta, o le lotte già in corso.Una giornata d’azione perchè le donne proletarie siano visibili, per essere unite dal nord al sud, per unificare le lotte che già ci sono, sostenerle perchè “se lotta una lottano tutte!”, per dare forza e coraggio a tutte.Vogliamo con questa giornata d’azione anche contribuire ad un ruolo di prima fila delle lavoratrici nello sciopero generale del 29 gennaio indetto dall’Assemblea delle lavoratrici e lavoratori combattivi.Assemblea nazionale donne/lavoratrici 19 novembre
PER INFO E PER COLLEGARCI SCRIVETE QUI SULL’EVENTO O ANCHE A lavoratriciprecariedisoccupate@gmail.com

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Classe 1990, Pescarese di adozione. Attivista transfemminista e co-fondatrice del Collettivo Zona Fucsia, si occupa da sempre di divulgazione femminista. È speaker radiofonica e autrice in Radio Città Pescara del circuito di Radio Popolare con il suo talk sulla politica e attualità "Stand Up! Voci di resistenza". Collabora nella Redazione Abruzzo di Pressenza. È infine libraia presso la libreria indipendente Primo Moroni di Pescara e operatrice socio-culturale di Arci.

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