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L’ombra del patriarcato sulle Atlete Italiane.


La scottante vicenda della schiacciatrice pallavolista  Lara Lugli, emersa proprio tra le celebrazioni della Giornata Internazionale della Donna, è solo la punta dell’iceberg di un’annosa questione che in Italia si sta protraendo da troppo tempo.

Dovremmo, dunque, porci una domanda sacrosanta: perché nel 2021 una sportiva deve decidere se essere madre o continuare a giocare?

L’aspetto più surreale della condizione femminile del XXI secolo è nascosta proprio nel doppio standard dello sport  per il quale, in base ad una legge di 40 anni fa, solo gli uomini sono professionisti, mentre le donne restano dilettanti.

Tutte le nostre campionesse, dunque, praticano sport solo per hobby. Ad una donna italiana non è ancora concessa la possibilità di fare nello sport una carriera.

Solo nel 2020 un emendamento nella legge di bilancio ha equiparato le donne ai colleghi maschi includendole nella tutela delle prestazioni del lavoro sportivo, spettava però alle singole federazioni adeguarsi all’emendamento, cosa che forse per l’anno difficile appena trascorso non è stata fatta.

In virtù di questo vulnus legislativo, evidentemente, la società di pallavolo presso la quale Lugli ricopriva il ruolo di schiacciatrice, in pochissimo tempo ha ristabilito l’ordine sociale e il binomio donna = madre. Tutto il resto non vale!

Così Lara Lugli non è una giocatrice professionista e per questo la sua attività non prevede alcun diritto di maternità.

Inoltre la società sportiva in questione cita Lugli per danni d’immagine e di mancati introiti. Dalle mie parti si dice “sopra a lu cott, l’acqua vullite!” (Trad. “sopra un’ustione cade dell’acqua bollente”).

La posizione della Società Sportiva crea un precedente agghiacciante: equiparare la maternità ad un danno per la Società Sportiva stessa!

La maternità è un diritto e come tale va tutelato sempre.

A molto serviranno i gesti pubblici come quello di tutte le pallavoliste italiane che, durante le partite di questa settimana, hanno infilato sotto le divise un pallone mimando la maternità della collega.

Anche i colleghi sportivi italiani dovrebbero unirsi al gesto per moltiplicare la eco di questa battaglia.

Finché le federazioni Italiane non riconosceranno le loro atlete come professioniste nessuna causa legale avrà un epilogo positivo.

Qualche spiraglio di luce, però, arriva dall’estero. La commissione olimpica di Parigi 2024 ha stabilito che per la prima volta nella storia della competizione il numero di atlete sarà identico a quello degli atleti. Un segnale poderoso per spingere le federazioni di tutto il mondo a equiparare le prestazioni di uno sportivo agonistico a quelle di una sportiva agonistica. Anche nel logo delle olimpiadi è riscontrabile questa battaglia culturale: la fiamma olimpica si fa volto di donna!

Bisogna auspicarsi che per il 2024 la condizione delle atlete italiane sia già acqua passata.

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Di origine Abruzzese, ma ramingo come un nomade. Di molteplici interessi ogni sabato su Bl Magazine con la rubrica BL LIBRI.

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