82 secondi sul tatami valgono comunque una storia olimpica. Avrebbero potuto essere anche meno, secondo molti giornalisti sportivi, ma per le donne dell’Arabia Saudita, la partecipazione olimpica della judoka Wodjan Shaherkani ai XXX Giochi Olimpici di Londra 2012 è stato l’inizio di qualcosa di significativo.
Un sassolino lanciato per smuovere un mare morto, salato e immobile, la rottura di un dogma che persisteva da troppo tempo. A 16 anni, Wodjan Shaherkani è stata la prima donna saudita a partecipare a un’edizione dei Giochi Olimpici, in rappresentanza di una nazione in cui le donne sono state autorizzate a fare da spettatrici a un evento sportivo e a partecipare alla maratona solo nel 2019, sette anni più tardi.
L’invito del CIO
Prima delle Olimpiadi di Londra 2012, il CIO aveva posto un ultimatum a molti stati arabi, minacciandoli di escludere la federazione nazionale in toto qualora non avessero consentito anche alle donne di avere una propria rappresentanza. Considerata l’impossibilità di qualificarsi ottenendo risultati agonistici (lo sport femminile in Arabia Saudita è fortemente scoraggiato e considerato immorale), il CIO diede la possibilità a due donne di accedere su invito alle gare: Wodjan, appunto, e la mezzofondista Sarah Attar, specialista degli 800 metri nell’atletica leggera.
E così, alle 10:33 di venerdì 3 agosto 2012, Wojdan Shaherkani, con indosso un jūdōgi bianco e una cuffia nera, fu la prima donna del regno saudita a partecipare alle Olimpiadi. La sua prestazione sportiva non passò alla storia per la qualità dell’esito, che la vide soccombere a un ippon in meno di un minuto e mezzo, ma ciò non impedì al pubblico di tributarle un applauso lungo e sentito, di quelli che solo i campioni meritano di ricevere.
Timida, impacciata, alienata in un mondo perlopiù sconosciuto, filtrato dall’innocenza di chi, a 16 anni, non ha mai avuto modo di confrontarsi con una dimensione sociale che non fosse quella della sua famiglia, Wodjan ha aperto le porte dello sport a molte donne in Arabia Saudita.
Alle Olimpiadi come cintura blu
La passione di Wodjan per il judo, di cui era cintura blu ai tempi di Londra, è di derivazione paterna: suo padre, Ali Seraj, è allenatore di professione. L’annuncio della sua partecipazione alle Olimpiadi aveva smosso l’indignazione di molti cittadini sauditi, perché secondo le regole del judo non è possibile che le donne musulmane gareggino col velo, l’hijab, per ragioni di sicurezza, perché si rischierebbe il soffocamento.
Al niet della federazione sull’hijab, e dietro le insistenze di papà Ali Seraj che aveva minacciato di ritirare Wodjan se fosse stata costretta a gareggiare con la nuca scoperta, il compromesso fu l’utilizzo di una cuffia aderente, non chiusa sul collo. Secondo la versione rigorosa della legge islamica della sharia applicata in Arabia Saudita, le donne devono coprirsi dalla testa ai piedi quando sono in pubblico.
“Ero disturbata e spaventata all’inizio“, riferì poi Wodjan alla stampa: “Era la mia prima volta in una grande competizione e c’era molta pressione a causa del problema con l’hijab. Non mi sentivo a mio agio perché non avevo alcuna esperienza di grandi eventi. Mi ha messo a dura prova“.
Hani Kamel Najan, presidente della federazione di judo del paese, nonostante il disappunto, apparentemente senza ironia, per non aver vinto una medaglia, dichiarò: “Penso che sia un traguardo che abbiamo raggiunto. Siamo così orgogliosi e felici che abbia stato in grado di farcela“.
A Wodjan, per l’occasione, furono vietati tutti i contatti con persone di sesso maschile diversi da suo padre. Inoltre, la sua partecipazione alle Olimpiadi di Londra non fu pubblicizzata dai canali ufficiali di stampa del Regno Saudita.
Dopo la sfida sul tatami, per Wodjan cominciò quella con gli odiatori di professione sui social network. Qualche giorno dopo la sconfitta, papà Ali Seraj riferì al quotidiano Al-Sharq di aver scritto al Ministro degli Interni con copie degli insulti ricevuti da sua figlia su Twitter per citare in giudizio, tramite il suo legale, tutti coloro che avevano aggredito verbalmente sua figlia.
L’arbitro internazionale di judo aggiunse poi di non avere problemi con chi aveva criticato la prestazione della figlia adolescente, che nonostante sia stata prontamente battuta dalla portoricana Melissa Mojica aveva lasciato lo stadio tra una standing ovation, ma di non tollerare le offese personali ricevute dalla ragazza.
“Tu non rappresenti la casta donna musulmana“, aveva scritto Mohammed al-Barrak, docente presso l’Università Umm Al-Qura della Mecca, sulla sua pagina Twitter, mentre altri attacchi giunsero per motivazioni razziste, insultando Shaherkani per le sue origini asiatiche.
Da Londra a Tokyo, passando per Rio
Wodjan Shaherkani alle Olimpiadi non si è più vista. In compenso, la sua apparizione a Londra ha dato il via a un approccio più morbido del comitato olimpico saudita alla partecipazione delle donne ai giochi.
Se a Rio le atlete del Regno saudita erano state quattro (a Sarah Attar, già presente a Londra, si erano aggiunte Wujud Fahmi nel Judo, la fiorettista Lubna Al Omair e la centometrista Cariman Abu Al Jadail), a Tokyo 2020 gareggerà una sola donna, sempre nel judo: Tahani Alqahtani dovrà battersi nei sedicesimi di finale contro l’israeliana Raz Hershko nella categoria >78 kili il prossimo 30 luglio.
In pochi, come Wodjan, hanno saputo incarnare meglio lo spirito olimpico come lo aveva concepito il suo ispiratore Pierre DeCoubertin.