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TITANE – La calcolata ferocia di una nuova (!?) forma di cinema (recensione)

- 22/10/2021
TITANE (2021) di Julia Ducornau


TITANE di Julia Ducournau, vincitore della Palma d’oro al 74° Festival di Cannes, è un’esperienza visiva ed emotiva che lascerà i più sospesi tra l’incredulità e il disgusto. Ma dietro tanta esibita e compiaciuta ferocia c’è il coraggio di una regista esordiente capace di valicare i confortanti confini della normalità.

TramaUna bambina, Alexia, ha un incidente stradale e le viene impiantata una placca di titanio in testa. Da adulta la ragazza ha maturato una strana e morbosa parafilia per le auto e lavora come ballerina in un salone di automobili. Incapace di costruire anche il più piccolo rapporto affettivo ella tende a uccidere chiunque tenti di avvicinarla. Una volta che la polizia è sulle sue tracce, Alexia decide quindi di cambiare identità e assumere quella di un ragazzo scomparso dieci anni prima, Adrien. Il padre del ragazzo scomparso è Vincent, capo pompiere, sopraffatto dalla perdita del figlio e dal suo invecchiare. Dipendente da steroidi, pur avvertendo qualcosa di anomalo nella figura di quel figlio ritrovato, accetta e desidera fortemente la sua presenza. Ma Alexia/Adrien nasconde goffamente e dolorosamente un altro segreto: una gravidanza.

Agathe Rousselle in una scena tratta dal film TITANE di Julia Ducournau

Ci sono storie che esigono la totale sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore perché egli possa vivere completamente l’esperienza proposta dal narratore/regista.
TITANE di Julia Ducournau è certamente un film che fin dai primi minuti è intenzionato a scioccare. E lo farà per tutta la sua durata, in maniera sistematica al limite del compiacimento. Da subito poi la regista francese ci suggerirà cose che non subito saremo portati a comprendere o accettare, che potrebbero farci sorridere (forzatamente) o inorridire, eppure… è esattamente quella la strada percorsa dalla protagonista.

Tuttavia sarebbe superficiale bocciare senza termini un film spigoloso e provocatorio come questo. E io non sono qui per farlo. Al contrario, credo di essere dalla parte di chi ha apprezzato la calcolata natura sovversiva di questo TITANE e le scelte registiche portate ai limiti dell’accettabile di questa neo regista francese.

Dopo il sorprendente e altrettanto feroce esordio col film RAW, Julia Ducournau ha qui deciso di confermare la propria cifra stilistica e la propria visione di un nuovo cinema che fonde i generi cinematografici, dando vita a nuove forme visive ibride, metafora di una sessualità e un’identità fluida e complessa.

Parto subito col dire che la Ducournau non ci racconta nulla di realmente nuovo. Tematiche di contaminazione tra carne e macchine e parafilie a esse connesse ne avevamo già visto nel cinema di David Cronenberg in titoli insuperabili come VIDEODROME (1983) e CRASH (1996) e eXistenZ (1999). Così come non sono pochi i richiami al cinema iperviolento di Gaspar Noé (vedi IRREVERSIBLE, 2002 o CLIMAX, 2018), ma anche a un’estetica e un uso della luce tanto cara a Nicolas Winding Refn (vedi THE NEON DEMON, 2016).

Probabilmente la novità sta nel come tutte queste tematiche siano state affrontate e proposte al grande pubblico. La creatura partorita dalla regista è qualcosa che guarda al cinema di oggi e a quello di domani, alla speranza per un futuro in cui è possibile saggiare i confini proposti dal mercato e violentarli, trafiggerli, dilaniarli per superarli, così da liberare quel famoso estro creativo che presumibilmente possiedono i registi di oggi e di domani.

In questo senso è da guardare e assimilare l’ultima opera della Decournau: il manifesto di una volontà e di un’ispirazione che trova una sua via per venire alla luce, come un bambino che scalcia e colpisce dall’interno il grembo materno per affermare la propria esistenza.

Vincent Lindon in una scena tratta dal film TITANE di Julia Ducournau.

In questo teatro degli orrori si stagliano fiere e ferite le anime e le fisicità di due interpreti mai così perfetti nelle loro rispettive parti.
La protagonista è l’esordiente Agathe Rousselle la cui presenza miscela sapientemente sensualità e rabbia, disperazione e brutalità, femminile e maschile. Disarmante, spigolosa, androgina nella sua complicata bellezza, Agatha ha pochissimi dialoghi, la sua recitazione è carnale, istintiva, fisica, animale.
E poi vi è la magnetica presenza del più navigato Vincent Lindon qui nei panni di un uomo distrutto e incapace di elaborare la propria perdita. Un padre il cui amore è ai limiti del morboso, quasi sempre e pericolosamente in bilico su di un affetto malato. Prova altrettanto impegnativa dal punto di vista fisico, ma che a tratti spezza e spiazza il cuore.

Queste due anime disturbate e disturbanti sono l’olio e il motore di una macchina/creatura che non può che essere altrettanto disturbata e disturbante, incapace per certi versi di familiarizzare con un pubblico comodamente adagiato sulle poltrone di una piccola o grande sala cinematografica. Ma TITANE è qualcosa che rapisce, colpisce, tramortisce e per quanto possa piacere o meno, di esso resta un livido nero che ci impiegherà giorni e giorni a sparire.

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Ossessionato dal trovare delle costanti nelle incostanze degli intenti di noi esseri umani, quando non mi trovo a contemplare le stelle, mi piace perdermi dentro a un film o a una canzone.

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