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Josef Kohout, la storia dell’uomo dal triangolo rosa

- 25/01/2022
l'uomo dal triangolo rosa


Josef Kohout aveva solo 22 anni quando venne convocato dalla Gestapo e rinchiuso in un carcere di Vienna.

Era un giorno di marzo del 1939. Josef apparteneva a una famiglia della buona borghesia viennese, ma non aveva ancora compreso il pericolo che si insinuava subdolo nella vita di milioni di persone di quel tempo.

Josef salutò sua madre in preda a una paura indefinibile. La riabbracciò solo sei anni più tardi, sopravvissuto per miracolo agli abusi e all’annientamento umano della follia nazista. La sua colpa? Aver violato il paragrafo 175 che criminalizzava i rapporti omosessuali.

Josef Kohout è morto nel 1994. Il suo triangolo rosa, il marchio d’infamia apposto sulla sua tuta a righe lisa e sdrucita, è conservato all’Holocaust Memorial Museum di Washington ed è il primo e l’unico di cui sia rimasta traccia.

“Gli uomini col triangolo rosa”: il libro

Tra il 1965 e il 1967 Kohout rilasciò una serie di interviste al giornalista Hans Neumann per rivelare ciò che la storia, fino ad allora, aveva accuratamente nascosto: l’orrore dei triangoli rosa, dei deportati omosessuali dei campi di concentramento. La “feccia più lurida” dei lager, gli ultimi tra gli ultimi, i “traditori di genere” che neanche dopo la guerra riuscirono a ottenere una riabilitazione ma continuarono a essere considerati criminali comuni.

Le interviste hanno dato vita a una preziosa testimonianza, conservata in un libro, “Gli uomini con il triangolo rosa” (edito per l’Italia da Edizioni Sonda, che ne ha curato un aggiornamento nel 2019 con la postfazione di Giovanni Dall’Orto), che riunisce Kohout e Neumann sotto lo pseudonimo di Heinz Heger.

Nel libro vi è una spietata e lucida narrazione della follia nazista vista dagli occhi di un “triangolo rosa” come tanti, una vita qualunque strappata dalla serenità dei suoi giorni per diventare vittima delle persecuzioni di un’ideologia brutale e criminale.

olocausto omosessuali
La copertina di “Gli uomini con il triangolo rosa”

L’arresto

È il 1939, Hitler non aveva ancora invaso la Polonia. L’Austria è stata annessa al Reich da circa un anno e Josef, studente universitario, si prepara alla vita accademica. Non si interessa di politica e non fa parte di alcuna struttura affiliata al nuovo Reich nazista.

Non che nutrissi un’antipatia verso la nuova Germania […] ma l’educazione che ho ricevuto dai miei genitori ha sempre avuto un carattere tipicamente austriaco, nel senso che a casa nostra ha sempre prevalso la tolleranza e non si facevano mai differenze verso persone la cui lingua, religione o colore della pelle erano diversi dai nostri […] rispettavamo tutte le opinioni, anche le più stravaganti“.

A 16 anni Josef, che proviene da una famiglia fortemente cattolica, capisce di provare attrazione per i ragazzi. Riesce a nascondere il suo segreto per tre anni, fino a che non sente il bisogno di confessarsi a sua madre, la quale, preoccupata per il suo futuro, lo invita a costruirsi un’amicizia stabile per difendersi dai ricattatori.

A tradirlo agli occhi della Germania Nazista è la sua amicizia speciale con Fred, il suo primo amore. Un giorno, una loro foto in atteggiamenti affettuosi cade nelle mani sbagliate. Josef viene arrestato dalla Gestapo e condannato a sei mesi di prigione (che diventeranno anni di torture), mentre Fred, aiutato dalle amicizie influenti di suo padre, viene dichiarato incapace di intendere e di volere.

I due non si vedranno mai più.

L’inizio della prigionia

Dopo i sei mesi a Rossauerlànde, dove Josef viene abusato sessualmente dai suoi compagni di cella che tuttavia non esitano a ricordargli la sua miserabile condizione di “pervertito”, nel gennaio del 1940 viene disposto il trasferimento dei “traditori di genere” nei campi di concentramento. La sua destinazione è Sachsenhausen – Orianemburg.

Fu un colpo terribile per me, perché sapevo da altri detenuti tornati in carcere a Vienna che nei campi di concentramento i «finocchi» come me venivano torturati e presumibilmente ben pochi di loro sarebbero tornati. Ma allora non potevo o non volevo credere a queste voci eccessivamente lugubri. Purtroppo si sarebbero rivelate vere. Cosa avevo fatto per dover espiare a quel modo? Ero così depravato, un così pericoloso sovversivo? Avevo amato un amico, un uomo, non un minorenne, ma un adulto di ventiquattro anni! Non riuscivo a trovare in ciò niente di terribile e immorale. Che razza di persona pretende di ordinare a un uomo adulto come e chi può amare?

L’arrivo a Sachsenhausen

Con l’arrivo nel campo di concentramento, perfino le miserevoli condizioni del carcere di Vienna sembrano essere un ricordo sopportabile per Josef. Dopo aver descritto minuziosamente l’articolato sistema gerarchico che sovrintende alla gestione del campo – un intricato sistema di organizzazione di squadre di lavoro e guardiani con licenza di uccidere, i criminali delle SS – Kohout si sofferma sul particolare trattamento che veniva riservato ai triangoli rosa.

Questi godevano di una particolare attenzione da parte dei nazisti, che riservavano loro le violenze più indicibili e le mansioni più dure. I più forti lavoravano nelle cave di argilla e nelle fabbriche di mattonelle, sotto ogni tipo di condizione atmosferica, mentre i più deboli, considerati inutili, vengono spediti nelle camere a gas o pestati a morte.

Secondo le testimonianze di Kohout e di alcuni ex deportati, per le SS rappresentava una nota di merito sbarazzarsi di loro, perché considerati razza infame e indegni di vivere come gli uomini normali. Vivevano inoltre in blocchi isolati, perché discriminati anche dagli altri prigionieri che avevano il timore di essere confusi con loro.

Oltre alle particolari efferatezze delle SS, i triangoli rosa dovevano difendersi dalle angherie degli anziani del campo, i triangoli verdi o rossi, ossia i criminali comuni e i prigionieri politici, che assumevano spesso la guida dei blocchi e delle squadre di lavoro (kapò).

Particolare attenzione merita questo passo del libro dedicato alle prime mansioni attribuite ai nuovi arrivati: un lavoro inutile e massacrante, ma necessario per far capitolare psicologicamente anche il più ribelle degli internati.

Noi che eravamo appena arrivati fummo destinati al lavoro nel settore interno e dovevamo provvedere a tenere pulita l’area attorno al blocco. Almeno questo fu ciò che ci disse il nostro Arbeitskommandoführer: in realtà, l’obiettivo era quello di annientare, con lavori insensati ma molto pesanti, anche la minima briciola di resistenza nei nuovi detenuti e di distruggere quel poco di dignità umana che ancora ci rimaneva. Questo lavoro si protraeva finché una nuova truppa di detenuti con il triangolo rosa veniva internata nel nostro blocco e quindi ci sostituiva.

Il nostro lavoro era il seguente: al mattino dovevamo trasportare la neve davanti al nostro blocco dal lato sinistro della strada a quello destro, mentre al pomeriggio dovevamo riportare la stessa neve dal lato destro a quello sinistro. Non potevamo svolgere il lavoro utilizzando carriole e badili, perché sarebbe stato fin troppo semplice per noi froci. No, i signori delle SS avevano avuto un’idea migliore: dovevamo indossare il nostro cappotto alla rovescia, allacciandolo sulla schiena, e tirando su i lembi dovevamo trasportare la neve in grembo. Tutto a mani nude, dato che non avevamo guanti. Lavoravamo a coppie e ciascuno trasportava la neve o la caricava a mano per venti volte. Questo fino a sera, e sempre di corsa!

Durò sei giorni questa tortura fisica e psichica, questa corvée insensata, finché nel nostro blocco non arrivarono a sostituirci nuovi detenuti col triangolo rosa. Le nostre mani erano completamente escoriate dal gelo e dalla neve e quasi congelate e noi eravamo ormai diventati schiavi ottusi e indifferenti delle SS. Da alcuni detenuti del nostro blocco che erano lì da diverso tempo venni a sapere che d’estate i nuovi arrivati dovevano fare lo stesso lavoro con terra e sabbia“.

Tra i triangoli rosa non figuravano i “corruttori di minori“, uomini sposati che adescavano ragazzi e spesso li violentavano o ne abusavano in vario modo per esercitare su di loro un potere. Questi venivano spediti tra i criminali comuni, in quanto considerati “normali” e dediti solo a pratiche compensatorie. Erano i veri triangoli rosa, come Josef, quelli considerati “la feccia della società” solo perché dediti a intraprendere rapporti amorosi con persone dello stesso sesso.

“Così esistevano allora come oggi, due pesi e due misure: ciò che a uno viene consentito, all’altro che ammette apertamente la cosa non è permesso. Le pratiche omosessuali di due «normali» venivano minimizzate come
pratiche di compensazione, ma se due omosessuali facevano la stessa cosa col consenso reciproco, allora era una «porcata», una faccenda «sporca e disgustosa»”
.

triangolo rosa nazisti
Il triangolo rosa di Josef Kohout conservato all’Holocaust Memorial Museum di Washington

Come sopravvivere nei lager

La testimonianza di Kohout, la cui vera identità si scoprirà solo dopo la sua morte, è spietata e commovente.

Il racconto rivela senza filtri l’atrocità delle umiliazioni inferte dal regime nazista ai prigionieri, la perdita di coscienza sul valore della vita umana, il meccanismo perverso della casualità con la quale si aveva a che fare con la vita o con la morte: significativo è l’episodio in cui alcuni prigionieri sono costretti a lavorare in un poligono di tiro per creare delle montagnette paraproiettili ma finiscono per diventare bersaglio essi stessi, senza alcun motivo, dei fucili delle SS.

In un gioco al massacro, vince chi riesce a salvarsi usando tutte le armi a disposizione. È grazie al suo bell’aspetto e alla lucidità di pensiero che Kohout riesce a sopravvivere a sei lunghi anni di prigionia, che lo ridurranno, fisicamente e psicologicamente, a relitto umano. Diventa presto il favorito di alcuni anziani del campo, ricevendo la protezione di alcuni kapò – zingari, delinquenti comuni e prigionieri politici – dediti ai traffici di commercio sottobanco e favoriti da rapporti di convenienza con le SS.

Il prezzo da pagare per scampare ai lavori più estenuanti e pericolosi è favorire prestazioni sessuali ai protettori, fatto che Josef commenta come necessario “perché l’istinto di sopravvivenza era più forte della dirittura morale“.

Trasferito nel campo di lavoro di Flossenbürg, Kohout si rende strumento indispensabile della “Nuova Germania”. Le sue innovazioni per migliorare la fabbricazione di armi e accelerarne la produzione, rendendo le istruzioni semplici anche per i prigionieri non tedeschi, gli fanno guadagnare la stima del Lagerkommandant e degli Arbeitskommandofuhrer, fino a diventare kapò lui stesso, il primo col triangolo rosa, ruolo che ricoprirà per rendere la vita più sopportabile di molti nuovi arrivati.

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Una foto di Josef Kohout appena ventenne

Una testimonianza che non può essere dimenticata

Le crudeltà dei nazisti non conoscevano sazietà o limiti. Ai triangoli rosa venivano riservati i trattamenti più disumani: i dettagli di alcune torture riservate ai prigionieri omosessuali, disseminati nei capitoli del libro, mostrano il volto più raccapricciante della ferocia umana, in un viaggio senza ritorno nell’abisso della depravazione.

Indimenticabile, nel suo rassegnato epilogo, è la tortura ai genitali del prigioniero nelle celle di isolamento, così come l’eccitazione animalesca del blockfuhrer nella foga della fustigazione di un detenuto.

Merita infine di essere riportato il racconto dell’albero di Natale, che costituisce l’apice del sadismo delle SS.

Nella notte tra il 23 e il 24 dicembre del 1941 alcuni prigionieri russi tentarono di fuggire […] alcuni furono freddati immediatamente dalle sentinelle durante la fuga, mentre gli altri otto vennero impiccati la mattina del 24 dicembre. Per umiliare noi detenuti cristiani e probabilmente per far un «sacrificio» al loro «dio germanico», l’esecuzione avvenne proprio nei pressi dell’albero di Natale. A destra e a sinistra piantarono dei supporti di legno, sui quali appoggiarono un lungo palo robusto. Dopo averli legati, impiccarono i prigionieri russi con delle funi su quelle forche improvvisate, quattro per lato. Come deterrente per ogni altro tentativo di fuga, o anche per «abbellire» il nostro Natale, lasciarono i cadaveri appesi al patibolo per più di due giorni, fino al termine delle feste natalizie. La direzione superò perfino sé stessa in crudeltà, e ordinò che il giorno di Natale i detenuti di due blocchi per volta si disponessero davanti all’albero per una mezz’ora buona a cantare canti natalizi. Era una scena raccapricciante, che sconfinava nel grottesco: mentre lo stridulo coro dei detenuti intonava: «O Tannenbaum, o tannenbaum…», davanti a noi penzolavano sulla forca i cadaveri degli otto poveracci impiccati, scossi dal vento“.

Un incubo taciuto per decenni

La fine dell’incubo di Kohout fu simile a quella di molti altri internati. Le SS abbandonarono i prigionieri al loro destino durante la marcia nella neve verso Dachau, dove si presume che marciassero verso l’inevitabile sterminio di massa (la “soluzione finale” di cui poi si ebbe notizia). Intercettati da alcuni carri armati alleati, i detenuti furono finalmente tratti in salvo e poterono tornare a casa.

Kohout conservò per decenni i dolorosi cimeli dei suoi sei anni nei lager, nella speranza di ottenere un risarcimento per i crimini subiti. Questo, però, non fu mai possibile. Una volta che il mondo scoprì gli orrori e la follia dei campi di concentramento, molti degli omosessuali deportati tacquero sulla loro condizione e il governo tedesco si girò dall’altra parte, perché per legge erano comunque portatori di un vizio punibile con la reclusione. Lasciandosi alle spalle i lager, la gran parte di loro finì di scontare la condanna in prigione mentre tutti gli altri furono gudicati come deluinquenti e non perseguitati.

Il paragrafo 175 fu alleggerito nel 1969 ed ufficialmente abrogato solo nel 1994.

Nessuno degli omosessuali deportati fu mai risarcito, e perfino i libri di storia hanno ignorato per decenni le urla silenziose dei triangoli rosa. Si è dovuti attendere il 2000 perché il governo tedesco chiedesse scusa alla comunità gay per quanto patito a causa del Paragrafo 175.

Oggi lo sterminio degli omosessuali è stato riconosciuto dagli storici come “Omocausto“.

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Sono nato in Puglia, terra di ulivi e mare, e oggi mi divido tra la città Eterna e la città Unica che mi ha visto nascere. La scrittura per me è disciplina, bellezza e cultura, per questo nella vita revisiono testi e mi occupo di editing. Su BL Magazine coordino la linea editoriale e mi occupo di raccontare i diritti umani e i diritti lgbt+ nel mondo... e mi distraggo scrivendo di cultura e spettacolo!

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