La storia vera di Jeff Bauman, sopravvissuto all’attentato alla maratona di Boston del 2013.
Il suo percorso difficile di riabilitazione e il suo diventare simbolo “stronger” di una nazione che non si piega mai davanti alle avversità.
Il regista e sceneggiatore statunitense David Gordon Green non possiede l’anima sovversiva di uno Scorzese o uno sguardo cinico ma puntuale come Clint Eastwood; egli , fino a oggi, si è fatto notare per “GEORGE WASHINGTON” (2000) e per qualche commediola dimenticabile come “STRAFUMATI” (2008).
Ha sicuramente una buona padronza della telecamera e lo aspettiamo al varco con il nuovo capitolo della saga di Michael Mayers in “HALLOWEEN“, di prossima uscita.
“STRONGER” è forse il suo miglior film e non possiamo che apprezzarne il lavoro.
Dopotutto è facile provare da subito una forte empatia col personaggio di Jeff Bauman, ragazzotto di 28 anni che tenta in tutti i modi di riconquistare la sua amata Erina – una bravissima Tatiana Maslany che i più ricorderanno nella serie Netflix “Orphan Black” e vista nel film “WOMAN IN GOLD” del 2015 – e poi vittima casuale di un attentato.
Le estenuanti sedute di riabilitazione, la sofferenza fisica, i lati più impietosi di chi deve farsi aiutare dagli altri anche nei gesti più semplici, lo sconforto, la rabbia, la vergogna, sono rese al meglio nella straordinaria performace recitativa di un sempre più bravo Jake Gyllenhaal.
Rifuggendo ogni facile sentimentalismo egli ci mostra la difficoltà di un uomo, amato e supportato da un’intera nazione che in lui vede il simbolo della vittoria, che si sente soltanto un fallito e un peso per la propria famiglia e le persone a lui care.
Il film pecca proprio qui: anziché tessere una critica intelligente sulla costruzione dei miti americani, si appoggia completamente sulla recitazione del suo attore protagonista.
Un buon film che ci rincuora ma che manca di coraggio.