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Philadelphia: il film di Jonathan Demme compie 25 anni

- 13/01/2019
phialdelphia


“Ero ferito e malridotto
E non riuscivo a capire cosa sentivo
Non riuscivo a riconoscermi
Vedevo il mio riflesso in una vetrina
E non riconoscevo la mia stessa faccia
Oh fratello mi lascerai consumare
Sulle strade di Philadelphia?”


Streets of Philadelphia – Bruce Springsteen, 1993

Così cantava venticinque anni fa Bruce Springsteen sui primissimi piani di un dolente ma determinato Tom Hanks. Reduce dagli Oscar per Il silenzio degli innocenti, il compianto Jonathan Demme sentì la forte necessità di affrontare lo spinoso tema dell’AIDS con un film intensamente orientato ad un pubblico comune, mal informato sulla malattia, rivolgendosi quindi verso quelle persone per cui l’AIDS era motivo (e lo è tutt’ora) di discriminazione. Per questo ad oggi il film, e in effetti lo è, potrebbe sembrare piuttosto invecchiato servendosi di molti cliché. Tuttavia la loro funzione appare più che giustificata per spiegare la malattia e le sue privazioni sociali causate dai pregiudizi ad un pubblico più ampio possibile, “come se avesse soltanto quattro anni”.

La decisione di produrre un film come Philadelphia derivò dalla diretta esperienza personale del regista: in una delle sue ultime interviste egli racconta di come, dopo aver ammesso di aver velatamente discriminato un malato di AIDS su un treno a causa della sua disinformazione, la malattia avesse poi colpito uno dei suoi migliori amici. Da quel momento pensò che il modo più diretto per aiutarlo fosse stato quello di istruire la massa, considerandosi lui stesso parte di essa memore del suo spiacevole episodio discriminatorio, attraverso il mezzo espressivo che più prediligeva: il cinema.

Se la società uccide prima della malattia

Per fare questo il suo amico, l’artista newyorkese Juan Suàrez Botas, gli consentì di assistere ad ogni sua cura presso il centro medico che accoglieva anche altri malati, tra cui l’attore Daniel Chapman, che sarà anche selezionato per alcune comparse. L’assistenza di Botas, che morì durante i mesi di produzione del film, gli fece capire non solo il decorso naturale della malattia, mostrata nel film in maniera toccante ma mai particolarmente dura in modo da non far perdere mai l’identificazione del protagonista col pubblico comune, ma soprattutto tutto ciò che di “innaturale” essa comportava a livello sociale.

Oltre alla scoraggiante sfida di avere una malattia del tutto nuova per la medicina e quindi senza alcun tipo di cura sicura, Demme realizzò e personalizzò quanto fosse riprovevole il governo americano e gran parte della popolazione nei confronti delle persone affette da AIDS, vista addirittura come una condanna divina da alcune fasce particolarmente conservatrici. Morte sociale quindi ancor prima di morte fisica.

Sulle strade di Philadelphia

Affidandosi al drammaturgo Ron Nyswaner nel film si traccia la storia di Andrew Beckett, brillante avvocato gay malato di AIDS, parzialmente ispirato ad una storia vera accaduta a Boston, licenziato in tronco dallo studio legale in cui lavora dopo che i suoi superiori vengono a conoscenza della sua malattia e della sua sessualità.

Senza scoraggiarsi, malgrado la malattia ne mini sempre di più il fisico, farà causa ai suoi superiori grazie all’avvocato Joe Miller il quale, seppur riluttante a prendere in carico il caso, riuscirà a vincere la sua omofobia.

La decisione di ambientare il film proprio a Philadelphia non è un caso: è stata la prima capitale americana, la città in cui sono nati i diritti della più potente Nazione occidentale, la “Città dell’amore fraterno”. Ciò si tradusse nell’esigenza di integrare tra gli attori e la troupe comparse prese dalla quotidianità della grande città americana realmente malate di AIDS, in alcuni casi nella sua fase terminale, tra cui Ron Vawter, uno dei più grandi attori americani teatrali dell’epoca, il già citato Daniel Chapman ed anche attivisti della città.

philadelphia 25 anni

Cosa rimane di Philadelphia

Contro ogni aspettativa, viste le tematiche trattate, il film si rivelò un grande successo di pubblico aggiudicandosi due premi Oscar (Tom Hanks – migliore attore e Bruce Springsteen per Streets of Philadelphia) colpendo come previsto in particolar modo coloro che fino a quel momento erano rimasti insensibili al temi dell’AIDS e dell’omofobia. Non entusiasmò il famoso attivista Larry Kramer definendo il film “parte del problema e non della soluzione” e tale giudizio pur non propriamente accettato dallo sceneggiatore Ron Nyswaner diede paradossalmente una riconferma del pubblico a cui era destinato, ovvero non a chi già conosceva la malattia e le sue privazioni ma a chi fino ad allora ne era rimasto del tutto insensibile o, peggio ancora, aveva guardato sempre i sieropositivi con disprezzo.

Pur non essendo un capolavoro vanno riconosciuti al film dei meriti oggettivi: la prima metà degli anni Novanta furono quelli in cui la paura per l’AIDS raggiunse l’apice, sia dal punto vista prettamente epidemico che mediatico. La disinformazione era quasi totale e molti credevano davvero che si potesse essere contagiati con uno starnuto o con una posata sporca. In ciò Demme è stato grande a tratteggiare in che modo l’uomo comune, mettendo in scena la propria vita, osservi con ignoranza e paura il malato di AIDS nel momento in cui Andrew si reca da Joe per chiedergli una consulenza legale dopo essere stato rifiutato da molti altri avvocati.

In definitiva, in tempi in cui le discriminazioni di qualsiasi genere sembrano essere all’ordine del giorno a cui non sempre la giustizia sembra rispondere in modo equo, riscoprire dopo venticinque anni un film come Philadelphia significa ripensare a come i pregiudizi siano capaci di uccidere più del male fisico e soprattutto a come le azioni di ognuno di noi possano fare la differenza, sia nel bene che (purtroppo) nel male.

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