Pedro Almodóvar guarda al suo vissuto e viene a patti col suo passato, regalandoci una pellicola matura e onesta e ben costruita. Da vedere!
Salvador Mallo è un regista in piena crisi esistenziale.
Soffre sia nel corpo che nell’anima e questo si ripercuote nella sua arte che vive solo di ricordi.
E sul viale della memoria il regista fa i conti col proprio passato, tra vecchi amori, la fama, Madrid e la figura di sua madre.
Molti registi hanno lasciato uno sguardo indelebile nella storia del cinema e sicuramente Pedro Almodóvar è uno di questi.
Ma è anche vero che molti poi vivono di una fama e di una stima che non necessariamente sono meritate.
Il regista spagnolo ha dato un’impronta originale e personale alle sue tante pellicole e il suo stile è diventato un marchio inconfondibile di sensualità e dramma e provocazione e poesia.
Stile che ha poi influenzato tutto il cinema europeo contemporaneo e successivo ai suoi lavori.
È dal 2006 che Almodóvar non sapeva toccarmi.
“VOLVER” , a mio parere, è stato il punto di non ritorno.
Dopo di esso il cinema almodovariano ha subito sterzate brusche e rallentamenti che mi hanno reso difficile trovare qualcosa di interessante nelle sue opere.
Al pari di registi come Tim Burton, mi ero convinto che egli non avesse più nulla da dire se non replicare i suoi passi, dirigendo copie mal riuscite di capolavori della sua luminosa carriera.
E ci sono film come quell’accozzaglia di banalità mascherate da colpi di scena che è “LA PELLE CHE ABITO” (2011) o disarmanti pasticci baracconi come “GLI AMANTI PASSEGGERI” (2013) che proprio non gli perdonerò mai.
Ecco perché ieri si è compiuto il miracolo.
Messi da parte orpelli e scandali e furbi stratagemmi registici, Pedro con “DOLOR Y GLORIA” ha diretto un film tra i suoi più belli.
Ha scelto di affidare il ruolo del suo alterego ad Antonio Banderas, il suo attore feticcio, la sua musa, spogliandolo di una sensualità disinibita, guardandolo con sincerità per l’uomo che è oggi.
Con tenerezza e affetto ha messo a nudo la sua anima e ha riposto la propria nelle mani dell’unico attore di cui potesse fidarsi per parlare al suo pubblico (e a se stesso) con la naturalezza e la serenità di chi è venuto a patti col suo passato.
Tornano quindi temi e personaggi e situazioni familiari a chi ama il suo cinema, ma ci vengono raccontati con voce nuova.
Ai colori caldi e accessi delle splendide scenografie si contrappone una messinscena misurata, riflessiva, cauta e matura.
“DOLOR Y GLORIA” sono gli estremi di una passione per il cinema che pareva esser perduta, ma che Almodóvar ritrova solo oggi.
Con la consapevolezza di chi ha vissuto sulla propria pelle tutti gli eccessi e gli acciacchi di un corpo in declino egli si accetta per quello che è.
Pedro non ha più necessità di ribellarsi al clima politico e sociale del franchismo della sua giovinezza; non serve che esibisca o ostenti la sua omosessualità (meravigliosa la sequenza di due uomini maturi che si guardano con immutato affetto e attrazione, ma che sanno parlarsi più che spogliarsi); egli ha conosciuto i demoni della droga e della gloria e non ha più voglia di inseguirli o di esserne vittima.
Egli accetta il dolore umano come elemento naturale e imprescindibile della vita.
Egli accetta la morte di una madre che vivrà per sempre nei suoi fotogrammi.
Egli accetta l’amore e come il bimbo che insegna a scrivere a un giovane ragazzo analfabeta, Almodóvar ci insegna a scrivere la nostra storia e ad accettare i nostri amabili limiti.