Ci sono storie che meritano di essere raccontate. Quando si parla dei diritti dei lavoratori quella di Giuseppe Di Vittorio deve essere narrata e fatta conoscere il più possibile.
Il bracciante che divenne sindacalista
Giuseppe Di Vittorio nasce a Cerignola nell’agosto del 1892, mese in cui, a Genova, viene fondato il Partito dei Lavoratori Italiani, il partito socialista, con cui Di Vittorio, nel 1921, entrerà in Parlamento.
“Ragazzo bracciante semianalfabeta, figlio di braccianti analfabeti, vivente in una società in grande maggioranza di analfabeti”, così Di Vittorio descrive la sua infanzia nella società rurale pugliese a cavallo tra i due secoli.
La sua indole battagliera non tardò ad uscire: a diciotto anni Di Vittorio era già una promessa del socialismo pugliese, “dalla parte dei cafoni”, i braccianti meridionali. Sarà poi segretario del circolo socialista di Cerignola, segretario della Camera del lavoro di Minervino Murge e direttore di quella di Bari.
Diceva Di Vittorio: “I padroni non considerano il lavoratore un uomo, lo considerano una macchina, un automa. Ma il lavoratore non è un attrezzo qualsiasi, non si affitta, non si vende. Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa e vuole che questi suoi diritti vengano rispettati da tutti e in primo luogo dal padrone“
I due esili
Nel 1914, ricercato dalla polizia in seguito ai fatti della “settimana rossa”, è costretto a ripararsi a Lugano, dove trovano rifugio i rivoluzionari di tutta Europa definita dal socialista pugliese “il mio liceo”.
Tornato l’anno successivo per adempiere al proprio dovere militare, a causa del suo passato di sovversivo verrà spedito nella dolorosa campagna in Libia, e rientra in Italia solo un anno dopo il termine del conflitto, nell’agosto del 1919.
Nel 1922, a Bari, è tra i protagonisti dello sciopero nazionale “legalitario” che vuole porre fine alle violenze fasciste in tutta Italia e ripristinare la legalità nel paese. Nonostante il sonoro flop della serrata in tutta Italia (l’ampio squadrone antifascista non riesce ad essere contrastato), Bari e la sua Camera del Lavoro riescono a costituire uno schieramento di forze allargato (socialisti, sindacalisti, anarchici, comunisti, ufficiali fiumani, arditi del popolo) e a tenere in scacco i fascisti fino al mese di ottobre, quando l’esercito interviene a conquistare e sciogliere la Camera del Lavoro.
L’esilio, tuttavia, continua. Conosciuti a Roma Gramsci e Togliatti, e col fascismo ormai consolidato al potere, Giuseppe si trova a dover lasciare di nuovo l’Italia e viaggia tra la Russia e la Francia. Fa ritorno nella penisola solamente nel 1941, nei panni di prigioniere politico e condannato a cinque anni di confino nell’isola di Ventotene.
Liberato nel 1943, prende parte a alla lotta di Liberazione. L’anno successivo diventa firmatario del Patto di unità sindacale di Roma con Achille Grandi per i democristiani e Emilio Canevari per i socialisti, nel 1945 segretario della CGIL e, nel 1946, deputato dell’Assemblea Costituente.
Nel 1953 è eletto anche presidente della Federazione Sindacale Mondiale. Muore quattro anni dopo, a Lecco, colpito da un infarto.
La dignità dei lavoratori
Norberto Bobbio affermava “che ciò che caratterizza un diritto sociale a differenza di un diritto di libertà, è che esso è riconosciuto e protetto non solo nell’interesse primario dell’individuo, ma anche nell’interesse generale della società di cui l’individuo fa parte.”
Giuseppe Di Vittorio dedicò la sua esistenza al diritto sociale del lavoro e scrisse una delle pagine più interessanti della storia sindacale italiana con il Piano del lavoro del 1949. I “costi del lavoro contenuti” per l’industria italiana sono stipendi magri e sottoccupazione per i lavoratori italiani. Nel suo Piano Giuseppe individua l’interesse comune tra lavoratori ed imprenditori, attraverso misure che possano sostenere il potere d’acquisto dei primi e lo sforzo produttivo dei secondi.
La conquista più grande di Di Vittorio, tuttavia, resta l’art. 39 dell Costituzione che sancisce il diritto alla pluralità sindacale come fondamento delle relazioni fra le organizzazioni dei lavoratori e i datori di lavoro.
Di Vittorio, membro della Costituente, espresse un modello di sindacato come mediatore tra i lavoratori e lo Stato: se da un lato, infatti, la concezione corporativa vedeva nel sindacato un ente di diritto pubblico legittimato dallo Stato, dall’altro vi era una visione liberale secondo la quale il sindacato non intratteneva rapporti giuridici con lo stato e non riceveva da questi alcun sostegno.
L’art. 39 presentato alla terza sottocommissione della Costituente dall’On. Di Vittorio, si risolse in una soluzione intermedia in quanto rifiutava sia la natura pubblica del sindacato, sia la prospettiva privatistica dei suoi compiti. Pur nei limiti di un regime di sostanziale libertà dalle ingerenze statali, l’art. 39 conferiva ai contratti collettivi efficacia erga omnes, vale a dire, anche rispetto ai non iscritti ai sindacati.
La forza dei sindacati verso lo Stato è rafforzata inoltre dal diritto di sciopero, riconosciuto anni più tardi anche dalla Corte Costituzionale come mezzo di pressione politico-economica.
Tuttavia, la mancata realizzazione delle relative norme di attuazione portò al collasso del sistema delineato dall’art. 39 e dalla visione di Di Vittorio, e nel corso degli anni ’50 venne ad affermarsi una visione delle relazioni sindacali di stampo chiaramente privatistico, nonché fortemente sbilanciato a favore dei datori di lavoro, caratterizzato anche da una “liberalizzazione progressiva del controllo sull’attività sindacale in azienda e sullo sciopero volta a contenere la allora forte spinta antagonista del movimento sindacale“.
Solo con la l. 300/1970 si regolò per la prima volta l’esercizio dell’attività sindacale all’interno dei luoghi di lavoro, configurandosi come una moderna forma di tutela dei lavoratori da parte del sindacato “sostenuto” ma non “controllato” dallo Stato.
“Io non sono, non ho mai preteso, né pretendo di essere un uomo rappresentativo della cultura. Però sono rappresentativo di qualche cosa. Io credo di essere rappresentativo di quegli strati profondi delle masse popolari più umili e più povere che aspirano alla cultura, che si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado del sapere che permetta loro non solo di assicurare la propria elevazione come persone singole, di sviluppare la propria personalità, ma di conquistarsi quella condizione che conferisce alle masse popolari un senso più elevato della propria funzione sociale, della propria dignità nazionale e umana. La cultura non soltanto libera queste masse dai pregiudizi che derivano dall’ignoranza, dai limiti che questa pone all’orizzonte degli uomini: la cultura è anche uno strumento per andare avanti e far andare avanti, progredire e innalzare tutta la società nazionale“
Giuseppe DI Vittorio
fonte: Casa Di Vittorio