Durante tutto febbraio, in USA e Canada, si celebra il Black Histor Month, mese dedicato alle personalità che hanno fatto la storia della comunità nera.
La ricorrenza è stata istituita dall’educatore americano Carter Godwin Woodson (1875 – 1950) per promuovere le conquiste degli afroamericani in vari ambiti della società e contribuire a combattere gli stereotipi razzisti.
Nel 1976, in occasione il bicentenario degli Stati Uniti, grazie al Presidente Gerald Ford si ottenne il riconoscimento a livello federale della celebrazione. In tale occasione Ford sollecitò il popolo americano a “cogliere l’opportunità di onorare le doti troppo spesso trascurate degli afro-americani“.
Per questo, anche BL Magazine vuole ricordare alcune personalità nere che hanno rappresentato il riscatto del black power e fatto la storia dei diritti civili. Oggi vi raccontiamo della storica protesta di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico.
Il black power in un pugno alzato
Sono trascorsi ormai più di cinquant’anni da quando l’inno statunitense risuonò nello stadio Olimpico di Città del Messico, nel clamore di una protesta silenziosa che oggi viene ricordata come uno dei momenti più iconici del Novecento per il black power.
Il 16 ottobre 1968, i velocisti statunitensi Tommie Smith e John Carlos arrivarono primo e terzo nella finale dei 200 metri piani alle Olimpiadi.
Smith aveva conquistato il nuovo record del mondo, con 19,83 secondi, risultando il primo uomo ad aver coperto i 200 mt in meno di venti secondi, benché avesse corso gli ultimi dieci metri con le braccia alzate e con un tendine infortunato.
A Smith seguì l’australiano Peter Norman, mentre al terzo posto chiudeva Carlos con 20,10 secondi.
Poco prima della premiazione, mentre Smith, Carlos e Norman attendevano nella stanza che gli atleti chiamano “The dungeon” (la prigione), si discuteva di ciò che stava per accadere.
In un clima sociale di forti contrapposizioni tra bianchi e neri negli USA (tre anni prima c’era stata la marcia di Selma, l’anno precedente era stato costellato da rivolte urbane, l’uccisione di Bobby Kennedy e l’assassinio dell’attivista Martin Luther King in aprile), i due atleti neri avevano pianificato una protesta da attuare direttamente sul podio. Una protesta pacifica, silenziosa, eppure destinata a stravolgere le vite di ognuno di loro, in favore dei diritti umani.
L’idea era di indossare dei guanti neri per rappresentare la comunità black americana, e raggiungere il podio senza scarpe, per ricordare la povertà dei neri d’America. Al collo, Smith indossava una sciarpa nera e Carlos una collana di perline, per ricordare il linciaggio e la condizione di schiavitù. Entrambi gli americani mostravano il distintivo del Progetto Olimpico per i Diritti Umani (OPHR), e avrebbero alzato i pugni guantati, che secondo Smith all’epoca “rappresentavano il potere nell’America nera”.
Anche Peter Norman, l’australiano bianco medaglia d’argento, fu coinvolto nella conversazione. Gli fu chiesto di aderire alla protesta indossando il distintivo dell’OPHR (Olympic project for Human Rights) e l’australiano non esitò un attimo. Avrebbe avuto tutto da perdere, ma mostrare solidarietà in quel momento fu più importante di qualunque sfida sportiva. Non avendo una spilla a disposizione, fu il canottiere della squadra americana Paul Hoffman, anch’egli attivista dell’OPHR, a prestargli la sua nel tragitto verso lo stadio.
Salirono sul podio, dove Lord Burgherley, membro del CIO e politico conservatore li attendeva per porgere loro al collo le medaglie. Quando vide i guanti, secondo alcune ricostruzioni posteriori, pensò che Smith e Carlos si fossero feriti la mano.
Al momento dell’inno, i tre premiati si girarono verso l’enorme bandiera statunitense issata sugli spalti. Non appena le note di The Star-Spangled Banner risuonarono forti nello stadio, Smith e Carlos abbassarono il capo e alzarono un pugno chiuso in segno di protesta, con i guanti neri. Carlos aveva dimenticato i suoi, pertanto si divisero quelli di Smith. Uno alla mano destra e l’altro alla sinistra.
A pochi metri di distanza, un altro protagonista di questa grande storia, il fotografo John Dominis, immortalò il momento con uno scatto che sarebbe diventato uno dei manifesti del XX secolo, e il simbolo di un decennio di proteste per i diritti civili dei neri.
In quell’istante, con quella foto, l’umanità intera sussultò insieme ai tre atleti. In una semplice fotografia il dolore e le speranze di un intero popolo si riversarono nella forza di quei pugni alzati. Una sfida al mondo lanciata in un silenzio che colpì mille volte più di un grido disperato.
Su come il pubblico allo stadio reagì a quel momento, la narrazione della stampa americana ci offre versioni contrastanti. La rivista Time riferì di “un’ondata di fischi increspata tra gli spettatori“, mentre Newsweek descrisse semplicemente un “mormorio increspato nello stadio“. Il New York Times parlò addirittura di una protesta “passata inosservata“.
Considerata l’epoca, è impossibile stabilire davvero cosa avvenne nello stadio per la qualità dell’audio non certo perfetta, ma in questo filmato della ABC è possibile percepire un leggero vocio a inno terminato.
Chi c’era dietro la protesta?
Secondo la ricostruzione più comune, l’eminenza grigia di questa operazione di protesta fu Harry Edwards, giovane professore di sociologia e fondatore dell’OPHR, il quale, si racconta, lavorò molto ai fianchi per “politicizzare” il successo della coppia (già ampiamente previsto dai pronostici) soprattutto quello di Smith, che non aveva un passato da militante.
Edwards aveva cercato addirittura di invitare i neri a boicottare i giochi, per via delle relazioni razziali logorate come non mai con i bianchi d’America e per rivendicare l’indubbio contributo al medagliere che puntualmente gli atleti afroamericani davano ad ogni Olimpiade, senza tuttavia esserne riconosciuti con la gloria che spettava ai bianchi. “È tempo – disse al New York Times – che i neri si alzino come uomini e donne e rifiutino di essere utilizzati come animali da spettacolo per un po’ di cibo per cani in più“.
Il boicottaggio era stato sostenuto anche da Martin Luther King, che aveva incontrato Edwards e diversi atleti, tra cui Carlos, a New York pochi giorni prima di essere assassinato. nell’aprile di quell’anno. “Vorrei elogiare gli atleti eccezionali che hanno il coraggio e la determinazione di mettere in chiaro che non parteciperanno alle Olimpiadi del 1968 finché non si farà qualcosa per questi terribili mali e ingiustizie“, aveva annunciato l’attivista.
Tuttavia, l’esclusione dai giochi della Rhodesia e del Sud Africa fecero rientrare l’allarme e il boicottaggio fu scongiurato.
Le conseguenze
La contestazione di Smith e Carlos non fu priva di conseguenze negative.
Il CIO avanzò immediatamente la richiesta di esclusione dei due medagliati americani dal villaggio olimpico, nonché la loro sospensione dalla squadra americana, per aver politicizzato il momento della premiazione olimpica.
All’inizio il Comitato Olimpico statunitense si rifiutò fermamente, salvo poi cedere alle pressioni del CIO, presieduto dal controverso Avery Brundage, conservatore con simpatie suprematiste e antisemite, tristemente famoso anche per essersi opposto al boicottaggio delle Olimpiadi di Hitler nel 1936, quando era presidente del comitato olimpico USA.
La cattiva fama del presidente del CIO gli aveva valso il soprannome di “Slavery Avery“, e la sua rimozione era una delle lotte di bandiera dell’OPHR.
Brundage, che il giorno della gara dei 200 mt era strategicamente ad Acapulco a presiedere lo svolgimento degli sport acquatici, aveva assistito alla cerimonia tramite tv ed era furioso. Mobilitò immediatamente il CIO per condannare la protesta di Smith e Carlos: i diritti dei neri erano considerati perlopiù una questione politica, piuttosto che universale, e la coppia fu accusata di “pubblicizzare le proprie opinioni politiche interne“, il che equivaleva a una “violazione deliberata e violenta dei principi fondamentali dello spirito olimpico“.
In seguito alle pressioni e alle minacce di Brundage, il Comitato Olimpico a stelle e strisce rilasciò una dichiarazione in cui si scusava per un atto di “esibizionismo atipico” che violava gli standard fondamentali “di sportività e buone maniere che sono così apprezzati negli Stati Uniti“. Smith e Carlos lasciarono il Messico in meno di 48 ore.
A farne le spese fu anche Paul Hoffman, per aver prestato il distintivo dell’OPHR a Norman: fu predisposta anche la sua espulsione, che venne tuttavia scongiurata dall’intervento di suo padre, un giudice con parecchia influenza. A Hoffman fu concesso di rimanere al villaggio olimpico ma ricevette comunque una lettera di richiamo.
Quando Smith e Carlos tornarono a casa, diventarono degli eroi per la comunità afroamericana e dei bersagli per i suprematisti bianchi e per un certo tipo di stampa conservatrice, e per lungo tempo subirono molte critiche, minacce e intimidazioni. Il Time commentò la loro protesta come “un’esibizione pubblica di petulanza che ha scatenato una delle controversie più spiacevoli nella storia delle Olimpiadi“, e L’Associated Press rincarò la dose definendola “una bizzarra dimostrazione“.
Anche per l’australiano Peter Norman non fu semplice il ritorno in Australia, dove anche lui subì l’ostracismo per aver partecipato alla protesta, e secondo qualcuno venne escluso dalle Olimpiadi del 1972 come punizione per il comportamento di quattro anni prima.
Oggi, prima ancora che per i suoi indiscussi meriti sportivi, è ricordato per aver mostrato solidarietà a due colleghi che in quel momento rappresentavano in sogno di rivalsa di un’intera comunità.
Norman morì poco più che sessantenne. Quel gesto di grandissima nobiltà fu celebrato al suo funerale, nel 2006, quando Smith e Carlos ne trasportarono la bara sulle spalle all’uscita dalla chiesa.
La redenzione di Smith e Carlos iniziò solo nel 1983, quando il presidente del comitato organizzatore dei Giochi di Los Angeles, Peter Ueberroth, volle fortemente Carlos come consulente speciale per gli affari delle minoranze. I due, nel frattempo, erano diventati allenatori di atletica.
Il 17 ottobre 2005, una statua alta 20 piedi è stata installata alla San Jose State University. La statua raffigura i loro ex studenti Tommie Smith e John Carlos con i pugni in alto, esattamente 37 anni dopo il podio olimpico a Città del Messico.
L’iscrizione ai piedi della statua commemora l’eredità lasciata dai due atleti alle nuove generazioni di studenti, per aver “difeso la giustizia, la dignità, l’uguaglianza e la pace“.
Fonti: The Guardian, National Geographic, Gazzetta dello Sport