Se c’è uno sport dove l’omosessualità è considerata un grande tabù, oltre al calcio, questa è la formula 1, regina del motorsport.
Se negli ultimi anni Danny Watts, storico pilota delle 24h di Le Mans, ha fatto coming out dopo il suo ritiro dalle quattro ruote, la Formula 1 resta ancora un baluardo di mascolinità eteronormativa (perlomeno apparente). Pochi ricordano, però, che quarant’anni fa un giovane pilota finanziato da privati fu il primo a vivere la sua omosessualità in incognito tra scuderie e circuiti: il britannico Mike Beuttler.
Furono tre le stagioni della F1 in cui Beuttler gareggiò negli anni ’70, accanto a mostri sacri come Sir Jackie Stewart e Niki Lauda, tuttavia con risultati non memorabili. Al suo ritiro dalla F1 seguì un misterioso trasferimento negli Stati Uniti, da dove non fece trapelare alcuna notizia sulla sua vita, se non quella della sua scomparsa prematura 14 anni più tardi, a Los Angeles, per complicazioni dovute all’Aids.
Beuttler rimane l’unico pilota gay conosciuto ad aver gareggiato ai massimi livelli del motorsport.
L’omosessualità nel mondo della Formula 1
La F1 degli anni ’70 non era un ambiente esattamente LGBT friendly, e la fama dei piloti si valutava, oltre che dalla cilindrata delle auto guidate, anche dalle seducenti compagnie femminili di cui si circondavano. James Hunt, il campione del mondo del 1976, amava mostrare fiero la scritta “Sesso, la colazione dei campioni” cucita a chiare lettere sulla sua tuta, e molti suoi colleghi, per non essere da meno, arrivavano in pista accompagnati da belle ragazze.
Per Beuttler, quindi, l’unica consolazione era correre. Non era eccessivamente talentuoso, non andò mai a punti e il suo migliore piazzamento fu un settimo posto, eppure lavorava sodo per dare il massimo in pista. Nell’ambiente tutti conoscevano la sua condizione, alla quale non si riusciva a dare un nome né una dimensione, nonostante si convincesse a farsi accompagnare alle gare da ragazze copertina, un comodo “travestimento” probabilmente per tenere a bada la stampa.
Come riportato da Matt Bishop, ambasciatore del Racing Pride e chief communication officer di Aston Martin F1, a BBC Sport, all’inizio degli anni ’70 la gente non parlava di omosessualità, era un concetto che in pochi afferravano lucidamente e pochissimi praticavano liberamente: il Regno Unito aveva legalizzato il sesso tra due adulti consenzienti dello stesso sesso solo nel 1967, pertanto anche la questione dell’orgoglio, al di fuori dei circoli di militanza, era poco recepita.
Nonostante questo, come dichiarato da Ann Bradshaw, una consulente di PR del motorsport, nessuno stigma colpì Beuttler nel virilissimo mondo delle corse: “nell’ambiente tutti sapevano che era gay, non era un segreto ed è stato accettato“.
La carriera agonistica di Beuttler “blocker“
Il percorso di Beuttler verso la F1 cominciò dopo i primi successi in Formula3, alla fine degli anni ’60, e poi in Formula 2, in particolare con la vittoria a Vallelunga in Italia nel 1971.
Fu lì che il giornalista Ian Phillips incontrò Beuttler nel 1970, durante gli anni della F2. Phillips lo descrive alla BBC come un ragazzo “tranquillo, amichevole, ma con una determinazione feroce“. Beuttler aveva la reputazione di essere un corridore molto duro, difficile da superare tanto da meritarsi il soprannome di “blocker”.
Il suo battesimo alla F1 avvenne grazie ad un gruppo di affaristi vicini all’ambiente omosessuale londinese, che nel 1971 fondarono l’indipendente Clarke-Mordaunt-Guthrie Racing e si proposero con una March 711 come vettura, rocambolescamente dipinta di giallo. Beuttler era un pilota solido, e dopo due anni di rodaggio, nel 1973 riuscì a collezionare quattro top 10, con un settimo posto nel Gran Premio di Spagna.
Le turbolenze finanziarie dovute alla crisi petrolifera nel 1973 furono fatali per la Clarke-Mordaunt-Guthrie Racing, che si ritirarono dalle corse e, a 34 anni, segnarono anche la fine della carriera agonistica di Mike Beuttler.
L’eredità di Beuttler
Dopo l’abbandono al mondo del motorsport, Beuttler si trasferì negli Stati Uniti, trascorrendo del tempo a San Francisco e Los Angeles, dove avrebbe vissuto più liberamente la sua vita privata.
Ancora oggi non si sa nulla della vita di Beuttler oltreoceano, che rimane perlopiù un mistero. Secondo alcuni siti internet tentò la carriera di giornalista sportivo, mentre la BBC accenna al suo ingresso nel mondo degli affari.
Ciò che è certo, purtroppo è che Mike è morto il 29 dicembre 1988 a Los Angeles per colpa dell’Aids, a soli 48 anni, e il suo decesso fu stato comunicato alla stampa da sua sorella.
Nonostante l’esempio di Beuttler e di Watts, ancora oggi l’omosessualità tra i piloti delle scuderie di F1 è un argomento difficile da digerire per gli addetti ai lavori. Quando lo scorso settembre il campione del mondo Lewis Hamilton, sul podio del GP di Toscana, ha sfoggiato una t-shirt nera che invitava ad arrestare i poliziotti colpevoli dell’uccisione dell’operatrice professionale dei servizi di emergenza Breonna Taylor, il pilota Vitaly Petrov è stato molto critico nei confronti dell’attivismo del collega.
Il russo si è chiesto, infatti, “se un pilota fosse omosessuale, uscirebbe con una bandiera arcobaleno e inviterebbe tutti a diventarlo o cosa?“. Un’ipotesi fuori luogo, con un preoccupante sottofondo omofobico che ci dimostra ancora una volta quanto il confine tra limite e opportunità nell’attivismo per i diritti umani (tra cui quelli LGBT+) nello sport sia da sempre molto, molto sottile.
fonte: BBC Sport, Auralcrave