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La solitudine di chi partorisce: la violenza ostetrica.

- 30/01/2023


Con la morte del neonato nella notte tra il 7 e 8 gennaio all’ospedale Sandro Pertini di Roma, soffocato durante l’allattamento, si è aperto un dibattito mai realmente affrontato in Italia, ovvero quello della violenza ostetrica nelle strutture sanitarie.

Abbiamo già scritto un articolo molto puntuale su cos’è la violenza ostetrica, che viene per l’appunto considerato, secondo Save The children, “un insieme di comportamenti che hanno a che fare con la salute riproduttiva e sessuale delle donne, come l’eccesso di interventi medici, la prestazione di cure e farmaci senza consenso o la mancanza di rispetto del corpo femminile e per la libertà di scelta su di esso“.

La violenza ostetrica è dunque l’insieme di tutte quelle pratiche violente, sia a livello fisico che psicologico, durante il parto della donna o anche durante le procedure per avere una IVG, quindi strettamente legato ai diritti riproduttivi delle donne o persone con utero.

Tra queste pratiche c’è il tanto discusso rooming-in, che costringe la donna a rimanere nella stanza, da sola con il neonato, senza alcuna assistenza, dopo aver affrontato un parto con tanto di travaglio.

Per non parlare dell’episiotomia, ovvero il taglio della vagina e del perineo per agevolare la fuoriuscita dell* bambin*, per nulla necessario se non in casi di urgenza e procedere senza alcun consenso informato.

È considerata violenza anche l’atteggiamento di insufficienza che le ostetriche hanno nei confronti delle partorienti, o la mancata assistenza o soccorso di aiuto quando richiesto, sminuendo le pazienti o screditandole. Insomma, una vera e propria violenza psicologica, che, come in quella domestica, non è visibile ad occhio nudo, ma che compromette l’esperienza della donna.

Il fenomeno è dunque grave e molto esteso, ma la domanda che però bisogna porsi di fronte a tutto questo sommerso è: perché tutto ciò avviene?

Davvero si può dare la colpa al taglio del personale, alla fatica post covid? Purtroppo, no: grazie alle testimonianze di donne con figli adulti e adolescenti, si è scoperto che tutto questo è avvenuto e avviene da molto prima della pandemia.

Quindi bisogna sicuramente fare un’ulteriore riflessione a riguardo: come può una società idolatrare così tanto la maternità ma maltrattare così le neo-madri?

Poco tempo fa mi sono concessa un binge watching della serie “Il racconto dell’ancella“, una storia distopica in cui si raccontava di una dittatura, la Repubblica di Gilead, alla cui base c’era l’ossessione dalla fertilità e dalle nascite. Le ancelle, donne fertili che venivano costantemente maltrattate e mensilmente stuprate a fini procreativi, quando erano incinte venivano viziate e coccolate. Durante il parto, addirittura c’era un vero e proprio rito insieme a tutte le ancelle, creando un ambiente sicuro e di familiarità per la partoriente.

Una scena della serie “Il racconto dell’ancella”.

È chiaro che, nonostante le similitudini, la nostra società non è una finzione come nel romanzo e nella serie TV, ma ti fa riflettere: come può la comunità essere così tanto “Pro-life”, come piace tanto appellarsi, soprattutto in questo periodo in cui i Movimenti pro-vita stanno prendendo forza, e non fare nulla contro il maltrattamento delle donne nei reparti di ostetricia che stanno, di fatto, mettendo alla luce una vita?

Avrebbe più senso il contrario, no?

Azzardo qui invece un mio pensiero: e se invece di essere una società pro-life in realtà siamo, come le transfemministe cercano di spiegare, una società No-Choice, quindi contro le scelte e la libertà delle donne?

Forse potremmo anche essere società a favore della maternità, ma di fatto non in grado di supportare tutto quello che c’è in correlazione alla maternità, in primis la donna che diventa madre. E lo vediamo non solo durante il parto, lo vediamo quando le donne entrano nel mondo del lavoro, con i congedi parentali inesistenti, il part time imposto e il gender pay gap. Con l’inesistenza degli asili nido. Lo vediamo quando vogliamo decidere sul nostro corpo, quando denunciamo uno stupro e ci chiedono come eravamo vestite. Come si può essere a favore della vita e poi togli i diritti a chi quella vita la porta alla luce?

Una società che ci chiede insistentemente di essere madri, andando a invadere spazi e privacy, andando a ledere i nostri diritti. Se non lo sei, non esisti, ma quando lo diventi devi essere impeccabile, nonostante nessun* ti venga in aiuto.

Come la donna che, tra la notte del 7 e 8 gennaio, si è addormentata mentre allattava il suo bambino, soffocandolo, perché nessun* le ha dato una mano nonostante lo avesse richiesto. E ora, tutte addosso a lei, perché è stata una cattiva madre.

Pretendono che diventiamo madri perfette senza che nessuno ti spieghi nemmeno come si prende in braccio un bambino, o come far attaccare il neonato al seno. Se non sei capace di tuo, sei una cattiva madre.

Se allatti vai bene, ma è sempre troppo o troppo poco, se non hai il latte, devi comunque provare ad allattare e se non allatti sei una cattiva madre.

Se vuoi riposarti dopo il parto e non ce la fai a stare con il bambino sei una cattiva madre.

Se non vuoi stare h24 con il/la neonato/a sei una cattiva madre.

E ci siamo così tanto abituate ad essere giudicate che si diventa poi noi stesse giudicanti, che tu sia una donna, che tu sia una madre, che tu sia un operatore sanitario in sala parto. È il circolo vizioso che si ripete e che si ripeterà sempre finché non ci rende conto che tutto questo ci renderà sole, sfinite, col pensiero che non vale la pena di lottare per la propria vita, perché meno valida di quella che genereremo.

E non c’è nulla di più sbagliato di questo.

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Classe 1990, Pescarese di adozione. Attivista transfemminista e co-fondatrice del Collettivo Zona Fucsia, si occupa da sempre di divulgazione femminista. È speaker radiofonica e autrice in Radio Città Pescara del circuito di Radio Popolare con il suo talk sulla politica e attualità "Stand Up! Voci di resistenza". Collabora nella Redazione Abruzzo di Pressenza. È infine libraia presso la libreria indipendente Primo Moroni di Pescara e operatrice socio-culturale di Arci.

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