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Riflessioni sul lavoro sociale ai tempi del Covid

- 12/02/2021
lavoro sociale coronavirus



Il Covid ci ha trovati impreparati, ha minato tutte le nostre certezze, si è imposto nell’intero sistema mondo, penetrando nei singoli paesi, nelle città, nelle campagne, fino ad arrivare nelle singole abitazioni e nelle case.

Non eravamo pronti. Non potevamo immaginare che, come un film di fantascienza, tra la fine del 2019 e il 2020 sarebbe comparso un virus e avrebbe alterato completamente la realtà, penetrando dentro ognuno di noi e facendoci riscoprire vulnerabili, esposti a ciò che è e resta più forte dell’uomo, come esso si voglia definire (Dio, natura, destino, ecc…).

La pandemia si è presentata con tutta la sua forza rimettendo in discussione dunque equilibri sociali, economici, sanitari, psicologici e personali. Ciò che stiamo attraversando e che si concretizza nell’isolamento, nell’uso della mascherina, nei vari lockdown è senza precedenti.

Il nostro, tuttavia, è un Paese abituato ad affrontare l’emergenza. Direi molto più abituato a improvvisare davanti ai fatti che la vita sociale ci presenta, più di quanto sia capace di programmare e strutturare interventi mirati nei singoli settori della vita sociale stessa.

Le politiche sanitarie e sociali hanno riscoperto al contempo la loro debolezza e la loro forza. Il governo centrale ha utilizzato strumenti giuridici per affrontare la crisi – perlopiù ignoti fino ad oggi nel linguaggio comune – chi conosceva i DPCM? Eppure, oggi sono diventati il pane quotidiano dei media e dei cittadini tutti. Ne sono stati emessi talmente tanti nel corso della pandemia che si parla di raccolte di DPCM da regalare per il prossimo Natale.

Ciò che però sarebbe necessario è un ripensamento radicale del pensiero innanzitutto. La realtà non è solo ciò che è, ma anche e soprattutto ciò che noi siamo in grado di creare, di costruire, di progettare (e progettare è gettarsi in avanti). Proviamo a farlo con le parole che più tornano in questo tempo di coronavirus.

La comunicazione della paura

La parola paura, ad esempio, ha permeato la comunicazione – concetti epidemiologici, statistiche, tavoli tecnici – generando nei più la paura innanzitutto di ammalarsi. La malattia – di cui l’epilogo in assoluto più tragico è la morte – ha da sempre spaventato e da sempre si è imposta sull’uomo quale confine obbligato e limite invalicabile. Malattia che può essere affrontata da vari punti di vista: il primo che vede la prevenzione quale strumento di azione volto ad evitarla e il secondo, la cura o la terapia che tenta di salvare ciò che può essere salvato. Arriva ex post al fine di non condurre alla fine. Con il Covid abbiamo riscoperto che esistono gli ospedali ed il nostro sistema sanitario e sociale si è visto “psicologicamente” sottratto.

Riscoprendo l’esistenza degli ospedali e delle ambulanze – che nelle città hanno rappresentato il rumore più assordante durante la chiusura totale – abbiamo rivisto e riconsiderato i medici, gli infermieri, il personale sanitario, ecc.. La nostra sanità è stata colpita in pieno – e ancora lo è in questo momento – si è vista destabilizzata e ferita nel centro. Per contro, quella tipica capacità di affrontare l’emergenza che caratterizza le professioni sanitarie e sociali costantemente private di strumenti e risorse, ha reagito con umanità e con l’eroico coraggio di alcuni uomini e donne che hanno perfino sacrificato la propria vita (e che non dimenticheremo, si spera!).

Il distanziamento sociale

La responsabilità. È l’altra parola guida in questo tempo. Deriva da rispondere. Ci siamo ritrovati tutti a dover rispettare misure più o meno severe per evitare una diffusione incontrollata del virus. Ma parlare di distanziamento sociale quanto ci ha fatto davvero bene? Quanto ha agito sulla nostra – anzi sulle nostre – paure? E ancora quanto ha compromesso la speranza?

Il distanziamento è e deve considerarsi fisico. È inimmaginabile un distanziamento sociale: lo comprova l’utilizzo e la messa in opera di tutti gli strumenti innovativi che la tecnologia ci mette a disposizione per comunicare. L’uomo è un animale sociale – lo sappiamo tutti – e come tale ha bisogno di relazionarsi con gli altri (patologie psichiatriche incluse richiedono l’altro!). Ma come dicevo, esiste un rapporto anche con la speranza che non va trascurato.

Il rapporto tra la paura e la speranza è mediato e rimediato da ciò che definiamo coraggio: se la paura ci rende immobili, fermi, bloccati; la speranza è un movimento, una spinta verso qualcosa di diverso da ciò che è in questo preciso ed irripetibile momento.

Hans Jonas, filosofo, scrive “La paura ancorché caduta in un certo discredito morale e psicologico, fa parte della responsabilità altrettanto quanto la speranza e, noi dobbiamo in questa sede perorarne la causa, poiché la paura è oggi più che mai necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia del buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei nevrotici…(tuttavia) non permettere che la paura distolga dall’agire ma piuttosto sentirsi responsabili per l’ignoto costituisce, davanti all’incertezza finale della speranza, proprio una condizione della responsabilità dell’agire: appunto quel che si definisce il coraggio della responsabilità” (Da “Il Principio di Responsabilità).

Questa lunga citazione – in estrema sintesi – per dire che il nostro dovrebbe essere un rispondere a sé e agli altri con coraggioso senso di responsabilità e che – nonostante la pandemia -non deve isolarci. Il distanziamento è e deve essere fisico!

Il punto di vista degli operatori sociali

Per noi operatori sociali – abituati alle scommesse e a rapportarsi con le emergenze e la scarsità di risorse – lo scenario si è presentato articolato e complesso. Quella cronica mancanza di risorse che connota le organizzazioni del lavoro sociale – quali i servizi sociali comunali ad esempio – si è ritrovata ad avere a che fare con un vertiginoso aumento di casi e problemi. Da un lato un notevole afflusso finanziario – quasi incontrollato e privo di una logica specifica ovvero volto a dare gli strumenti alle persone per farcela da sole anziché dipendere dallo Stato – dall’altro – non meno importante – l’obbligo di rimanere in casa ha fatto esplodere sia le relazioni familiari già critiche che – in misura maggiore – tutte quelle relazioni che venivano vissute parzialmente e/o con minore intensità di tempo e di spazio. Ci siamo ritrovati, con più o meno desiderio, a vivere nelle nostre case con le nostre relazioni familiari!

La scena dei telefoni impazziti negli uffici dovrebbe rendere l’idea. E dietro quelle telefonate c’è di tutto – non ultimo – il mondo del lavoro sommerso che è emerso con forza non consentendo a tutti i lavoratori in nero di sfamare le proprie famiglie.

L’ascolto allora diventa la parola d’ordine di questo momento e – lo è sempre stato – degli operatori sociali in particolare. Un ascolto però molto diverso, non più basato su una relazione asimmetrica in cui l’operatore è sopra e il cittadino/utente sotto. La pandemia coinvolge tutti, nessuno escluso e costringe l’operatore sociale a ricondurre la sua attività – ancor di più – sull’essere e non sul fare (quando non è uno strafare!).

Il paradosso del lockdown per gli operatori sociali è stato il vedersi sottratti quei tipici strumenti della professione – quali colloqui e visite domiciliari – in un momento che sarebbero invece fondamentali. La lotta al virus lo impedisce. Al contempo – ripeto – ci obbliga a ripensarci nei termini dell’essere. L’ascolto è vicinanza reale (è bene ricordarlo!) anche in assenza della vicinanza fisica. La tecnologia e l’innovazione che l’accompagna possono essere un’utile alternativa. La relazione d’aiuto può trovare nuove ed originali forme, nella consapevolezza che l’operatore sociale per sua squisita natura è agente di cambiamento e oggi il cambiamento riguarda anche noi operatori sociali, le nostre modalità di lavorare, il nostro saper essere e saper fare.

Per poter rendere il mondo un posto migliore – oggi più di ieri – occorre inventarsi e re-inventarsi massimizzando le risorse personali, organizzative e strumentali di cui si dispone. Il rischio – sempre lo stesso – è la solitudine dell’operatore che può essere e dovrebbe essere prevenuta e monitorata con una costante supervisione.

La forza, per quanto sia una risorsa personale, chiede una continua revisione, specie laddove vi è un aumento esponenziale di fattori di stress che connotano la vita non solo degli operatori ma di noi cittadini, tutti.

A cura del dott. Roberto Clavari

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