Venti minuti. Tanto sarebbe bastato a Gabriele e Marco Bianchi, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli per spegnere la vita di Willy Monteiro Duarte, morto nella notte tra sabato 5 e domenica 6 settembre a Colleferro.
Sono giorni che ormai le foto di Willy, nato a Roma da una famiglia capoverdiana, rimbalzano sulle bacheche dei social network. Gli occhi grandi, l’espressione entusiasta e serena, il sorriso di chi a 21 anni custodisce nei suoi giorni una preziosa innocenza. Lo sguardo vispo di Willy è stato spento per sempre senza una ragione, in una notte di ferocia e spietatezza.
C’è una rissa fuori da un locale. Willy si intromette per sedare gli animi, calmare l’inutile prova muscolare di un branco di ragazzi ventenni, probabilmente contro un suo amico. Diventa egli stesso bersaglio di una brutalità che non conosce nome, né giustificazione. I pugni, i calci del branco sono fuori controllo. per venti minuti la furia animalesca di quattro ragazzi si abbatte su Willy, a cui le risse proprio non piacevano. Fino a togliergli il respiro, fino a calpestare ogni suo punto di contatto con la vita.
I quattro scappano. Aprono i social, postano dei video demenziali. E continuano la loro serata.
Oggi sappiamo che i 4 giovani, individuati dalle forze dell’ordine, sono rinchiusi a Rebibbia con l’accusa di omicidio preterintenzionale. I loro social network tra le forche caudine del popolo di internet che non perdona.
Foto, post, commenti e testimonianze che stanno venendo fuori in queste ore tracciano il profilo di uno degli aggressori più in vista, Gabriele Bianchi, che stando alle fonti avrebbe precedenti per lesioni e spaccio, era solito scatenare risse e ostentare un tenore di vita piuttosto alto rispetto allo status dichiarato di nullatenente. Senza cadere nella facile retorica, ciò che emerge dai social network è un calderone d’apparenza machista dove all’essere si sostituisce il possedere, l’orgoglio si traveste da arroganza, l’aristocrazia dei sentimenti ad un carnevale finto-borghese.
Se ne vedono tanti di profili in giro, come quello di Gabriele. Fascisti mascherati da cafoni, pronti a sfoggiare il rolex e l’appartenenza ad un branco che li riconosce e li eleva a maschi esemplari. Liberi di provocare, di intimorire e di fare quel che gli pare, purché diano fastidio a qualcuno. Muscoli, terrore e un patologico culto del sé che travalica i limiti del concesso. Manieristi della superbia che sfoggiano in tutte le declinazioni fisiche possibili, autori di stupide insensatezze di cui si vanteranno insieme ad altri imbecilli. “La vita in ginocchio fatela fà a l’altri” intima Gabriele su Instagram.
C’è chi è convinto che la vita sia questo: un’ostinata rappresentazione della propria forza mascolina, virile, esaltata a livelli cinematografici e tossica. Un film grottesco mascherato da blockbuster con Vin Diesel. E nessuno che abbia mai detto loro di essere dei pessimi attori, che quell’aura di dannazione che faticano a comporsi, foto su foto, una massima improbabile dopo l’altra, è capace di ottenebrare la realtà.
Willy è solo l’ultima vittima di un sistema egoico che rintraccia in questa violenza da branco un processo identitario e riconoscibile. Come se Picchio ergo sum fosse l’unica certezza indubitabile per rivendicare il proprio posto nel mondo. In venti minuti di follia omicida.
Pare che i fratelli Bianchi si sian dichiarati innocenti (anche se un video li incastrerebbe), e sarebbe escluso il movente razziale. Repubblica, però, racconta di aver sentito persone vicine ai ragazzi archiviare la vicenda con leggerezza: “era solo un immigrato“. La vita di un ragazzo innocente, con quel sorriso che oggi dilania il cuore, che vale meno dell’impeto mortale di un branco di delinquenti.