Il 31 Marzo si celebra la “International Transgender Day of Visibility”
La “Giornata Internazionale della Visibilità delle persone transgender” è dedicata all’identità di genere.
Lo scopo della giornata, creata negli USA nel 2009 e ripresa da diversa Stati pochi anni più tardi, è quello di celebrare le persone transgender e al contempo aumentare la consapevolezza circa questa comunità a livello internazionale.
Con l’avvento dei social media la giornata ha preso sempre più piede, fino ad arrivare ad essere celebrata anche dalle grandi organizzazioni internazionali.
UN-Woman, l’organizzazione delle Nazioni Unite creata nel 2010 per aiutare nella divulgazione diritti delle Donne a livello globale, e più in generale all’educazione all’eguaglianza dei generi aderendo alla giornata ed inserendola nella campagna #planet5050, creare cioè entro il 2030 una società in cui donne e uomini abbiamo non solo gli stessi diritti ma anche lo stesse opportunità , lavorative in primis, ha coniato uno slogan degno di nota:
“defining my own gender is my human right” ( definire la mia propria identità di genere è un mio diritto umano) .
“ transgender identity as a mental disorder in its global list of medical conditions”
Definire la propria identità di genere, o meglio sceglierla, è veramente un diritto umano? Nonostante da un paio d’anni a questa parte l’Organizzazione Mondiale della Società stia discutendo di declassificare la comunità internazionale nel suo complesso fa spesso fatica ad accettare, regolamentare e gestire questa condizione.
Da uno studio di Human Rights Campaign, una NGO americana che lavora per i diritti della comunità LGBT dagli anni ’80, si legge che la maggior parte dei casi la comunità transgender, spesso in condizioni di marginalità all’interno della società e povertà, è vittima di violenze fisiche e psicologiche, di lacune giuridiche e burocratiche, di molestie e stigma sociale che preclude loro una normale integrazione sociale.
È questo è vero non solo negli USA ma anche negli altri paesi c.d. moderni e democratici. Due anni fa scoppiò il caso di Lea, ragazza transgender, passato sotto silenzio da quasi tutti i giornali e media nostrani. Lea e il suo compagno, arrivati ad Istanbul si sono visti “tenere in ostaggio” dalle autorità locali, malmenati e rimbarcati in Italia dopo 16 ore da incubo.
http://https://www.youtube.com/watch?v=ogkLe3nCNBk&t=2shttp://
I fatti in breve: Lea, in fase di transizione in un ospedale italiano, doveva recarsi a Istanbul per sottoporsi ad un’operazione. Arrivata in aeroporto però, al controllo documenti, lei ed il suo compagno sono stati fermati poiché in viaggio con un documento non corrispondente all’identità di Lea, e quindi ritenuto falso dalle autorità turche.
Anziché di rimpatriare i due, le autorità aeroportuali li hanno trattenuti per 16 ore senza far loro chiamare o avvisare le autorità consolari come dovrebbe avvenire in questi casi.
Ancor più grave il fatto che alla ragazza non siano state fatte prendere le medicine. I due, alla richiesta di contattare le autorità diplomatiche sono stati malmenati e solo dopo ore interminabili rispediti in Italia.
Siamo ancora quindi ben lontani non solo dal poter definire la propria identità di genere come un diritto umano, diritto inalienabile ed incomprimibile della persona, ma anche dal capire e comprendere le problematiche della comunità transgender sia a causa della burocrazia farraginosa che si innesca in questi casi sia a causa della mentalità retrograda, omofoba e intollerante che sta rientrando in Turchia negli ultimi anni.
È altrettanto grave, da un punto di diritto internazionale che due cittadini italiani abbiano subito un tale trattamento e che l’Italia ancora non abbia posto in essere quei meccanismi di tutela intra-nazionale dei propri cittadini, né che l’Europa, ove tra l’altro la Turchia aspira ad entrare, sia stata in silenzio, favorendo ancora una volta gli interessi economici a discapito dei diritti tout-court.
Di Lea e del suo compagno Sergio, e di questo incidente diplomatico che ha calpestato i diritti umani di due cittadini italiani, le cronache non riportano notizie da due anni.