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Intervista a un padre affidatario, single e omosessuale

- 23/11/2017


Prima di entrare nel vivo dell’intervista, i miei più sinceri ringraziamenti vanno a chi l’ha rilasciata, non solo per aver condiviso una parte così intima ed importante della propria esistenza, ma anche e soprattutto per aver mantenuto un’ imparzialità e lucidità straordinarie.

Quando hai deciso di prendere in affido un bambino?

In realtà, in principio, più che una decisione è stato un caso. Ho sempre desiderato una famiglia e quindi mi stavo informando – consapevole del fatto che la mia omosessualità sarebbe stata vista solo in accezione negativa – sulla maternità surrogata.

Una mia amica, Avvocato, mi ha suggerito di adottare un bambino.

In realtà non si trattava di un’adozione ma dell’affido.

Avevi già sentito parlare di questo istituto?

No, mai. E ho trovato anche molta disinformazione: quando ho contattato gli assistenti sociali del mio comune, non hanno saputo darmi notizie o informazioni in merito. Mi hanno solo consigliato di rivolgermi a un’associazione che si occupava di minori.

Sei stato subito convinto di intraprendere questa strada?

A dire la verità avevo mille dubbi, così tanti che al primo appuntamento che mi fu fissato non mi presentai. Non mi sentivo pronto, non sapevo a cosa andavo incontro. Le emozioni hanno avuto il sopravvento, ma poi mi sono detto che dovevo capire, che dovevo almeno provare.

Com’è stato il percorso che hai affrontato?

Strano, lungo. Ricordo che la prima volta che mi recai presso l’associazione, andai assieme alla mia amica Avvocato perché volevo capire bene.

Cosa ti è stato detto?

Non sono stati molto amichevoli o propositivi. Quello che mi è sempre stato ribadito, e che tuttora succede, è che l’affido è temporaneo, che sarebbe durato massimo 24 mesi. Mi hanno poi proposto un affido part-time, di sole poche ore alla settimana. Mi è stato detto che, essendo uomo, avrei potuto prendere solo bambini di sesso maschile, mentre alle donne possono essere affidate anche delle bambine.

Che ricordo hai del percorso valutativo e formativo?

Non piacevole, perché hanno fatto mille domande senza però mai spiegare nulla di concreto. Nessuno ha mai detto come mi sarei dovuto comportare, come si sarebbe svolto il tutto. Ricordo che si presentavano – e ancora lo fanno – alle otto del mattino per vedere cosa succedeva, chi potevano trovare in casa.

Qual è il ricordo peggiore?

Il consenso dei genitori del bambino, i loro sguardi e anche il giudizio della gente. Quando andavo ai colloqui, infatti, con quello che è oggi il mio bambino, i suoi parenti, quasi tutti, erano lì e io sentivo la loro ostilità, era quasi palpabile.

Quanti colloqui hai sostenuto?

Quattro. Nel primo caso l’affido non è stato possibile perché i genitori si opponevano. Il secondo incontro sembrava stesse andando bene, ho visto il bambino tre volte, invece poi è stato dichiarato adottabile e quindi non ho potuto prenderlo con me.

Poi a fine anno 2014 e inizi del 2015 ho incontrato quello che è oggi mio figlio.

Com’è andata?

In maniera assurda, per me e per lui.

A seguito di alcuni incontri mi dissero che potevo tenerlo con me. Purtroppo però era il periodo di Pasqua, di conseguenza lui avrebbe dovuto trascorrere quelle festività con me ma anche rimanere nella struttura. Ricordo che quando venne a casa mia la prima volta e conobbe la mia famiglia, era felice e continuava a ripetere che non voleva andare via. Non sapevo davvero come dirgli che sarebbe dovuto tornare nella struttura.

Quando gli comunicai la notizia si mise a piangere dicendomi che lo avrei abbandonato. Ad un tratto non lo trovai più. Mi prese il panico.

Dov’era?

Si era nascosto in casa. Sperava che non lo trovassi in modo da non dover tornare in struttura.

È andata meglio in seguito?

Insomma… Poteva venire a casa due, tre giorni e dopo dovevo riportarlo in struttura, facevamo i colloqui e dopo poteva tornare per altri due, tre giorni.

Perché questa prassi?

Loro la chiamano adattamento.

Hai avuto agevolazioni in questa fase?

Putroppo nessuna. Fino a quando non si ha il provvedimento del giudice, il genitore affidatario non può chiedere permessi. Ho dovuto quindi cercare di arrangiarmi e in questo è stato importantissimo il supporto della mia famiglia.

Rileva il fatto di avere un nucleo familiare vicino?

È fondamentale perché loro preferiscono affidare i bambini a famiglie e strutture. Un single ha più possibilità se dimostra di non essere solo.

Come sono stati i primi giorni insieme?

Belli, stupendi e al contempo difficili e complicati. Durante la notte lo sentivo piangere e non capivo il motivo, nessuno mi aveva detto niente.

Cosa hanno risposto in merito gli assistenti sociali?

Che accadeva perché gli mancava la struttura. Mio figlio ha altri fratelli che sono presso la stessa.

Ha influenzato il vostro rapporto il fatto che abbia dei fratelli?

Non tanto. Dopo un mese che era a casa mi ha chiesto di vedere i fratelli. Mi è sembrato giusto e così torniamo spesso in struttura a trovarli.

Cosa ti ha colpito in questa procedura?

Il fatto che non spiegano nulla. Vai completamente impreparato. Sono rimasto male quando, nel portare un regalo mentre era ancora nella struttura, mi hanno trattato come se fossi un pazzo, per loro era inaudito.
L’unica cosa che mi hanno detto è che deve avere un’ educazione standard.

Cosa significa?

Che non posso farmi chiamare papà, che devo – secondo loro – accompagnarlo a scuola, in istituto, farlo mangiare. Insomma io dovrei essere un istituto di accoglienza, dovrei fare quello che fanno loro, ne più ne meno.

Che obblighi hai?

Devo portare mio figlio in istituto due volte alla settimana. Devo chiedere il permesso per fare tutto. Se vado dal pediatra, se ha la febbre, li devo avvisare. Ogni volta che vado dal medico devo portare poi una copia del certificato.

La cosa assurda è che loro ti passano 200 euro al mese e con quelli dovresti fare tutto. Puoi fare tutto quello che vuoi, impegnarti al massimo, metterci cuore e anima, ma non avrai mai alcun merito.

Adesso come va?

Stiamo bene insieme. Ci divertiamo. Ma ogni volta che torniamo dai colloqui mio figlio è triste.
Ho istituito la fermata gelato per dargli gioia.

Sanno della tua omosessualità?
Sì ma no. Nel senso che devo nasconderla. Mio figlio però ha disegnato due uomini a scuola. Allora mi hanno chiesto perché lo facesse e io ho risposto che si trattava di mio fratello, che veniva spesso a trovarmi. Peccato che io non abbia fratelli e gli assistenti sociali lo sappiano benissimo!

Cosa ti preoccupa e cosa ti infastidisce?

Mi infastidisce che mi venga ripetuto di continuo che non è mio figlio, che è solo per un periodo limitato. Come se si potesse dare un limite temporale all’affetto. Lo so, l’ho compreso ma ho scelto di provarci.
Mi preoccupa il fatto che vorrei unirmi civilmente col mio compagno ma se lo faccio perderò mio figlio e la possibilità di aiutare altri bambini.

Consiglieresti questa esperienza?

Assolutamente sì.

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Sono nato in Puglia, terra di ulivi e mare, e oggi mi divido tra la città Eterna e la città Unica che mi ha visto nascere. La scrittura per me è disciplina, bellezza e cultura, per questo nella vita revisiono testi e mi occupo di editing. Su BL Magazine coordino la linea editoriale e mi occupo di raccontare i diritti umani e i diritti lgbt+ nel mondo... e mi distraggo scrivendo di cultura e spettacolo!

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