Questa settimana per la rubrica BL Legalità tratteremo un argomento che suscita da sempre accesi dibattiti e discussioni.
Parleremo della legge sull’aborto in un contesto dove la stessa viene nuovamente messa in discussione da parte di chi vorrebbe abrogarla totalmente e da parte di chi, invece, chiede delle modifiche anche se la Legge è già stata confermata.
La storia della L. 194/1978
Nello specifico, in data 17 Maggio 1981 fu indetto un referendum abrogativo della legge che, tuttavia, fu confermata dal 68% dei voti contrari all’abrogazione della norma.
L’applicazione di questa Legge, ad ogni modo, è sempre stata tutt’altro che scontata poiché, ancora oggi, capita ad alcune donne di seguire l’iter previsto dalla citata Legge ma di trovarsi innanzi a medici obiettori di coscienza che rifiutano di procedere.
Senza entrare in discussioni a livello etico e morale che, a parere di chi scrive, sono sterili quanto inutili, e posto che decisioni così delicate non possono essere prese dalla collettività ma solo dai diretti interessati, si cercherà di far comprendere il contenuto della Legge.
Preliminarmente occorre sottolineare che, come espressamente indicato nel testo normativo, la Legge sull’aborto non serve a controllare le nascite e a differenza di quanto si crede il ricorso alla stessa non è così facile e privo di controllo.
Cosa dice la la legge 194/78
Sino al 1978 l’interruzione volontaria della gravidanza (IVG) era prevista come reato dagli art. 545 e segg. del codice penale. Sebbene questi articoli siano stati abrogati successivamente all’emanazione della Legge, all’interno della stessa sono stati inclusi dei limiti al ricorso a tale procedura.
La Legge 194/78 consente, in casi indicati specificatamente indicati ed individuati, alla donna di interrompere la gravidanza in istituti quali Ospedali, Poliambulatori che devono essere convenzionati con la Regione, nei primi novanta (90) giorni di gestazione.
Successivamente l’aborto è ancora possibile, solo tra il quarto ed il quinto mese di gravidanza, per motivi di stretta natura terapeutica.
Cosa accade quando una donna decide di abortire?
Dovrebbe rivolgersi a dei consultori che hanno l’obbligo di informarla sui diritti che sono garantiti dalla legge.
A titolo esemplificativo, e non esaustivo, sul diritto alla privacy (e quindi all’anonimato) sui diritti di donna lavoratrice in attesa di un figlio e sulle soluzioni alternative all’interruzione della gravidanza. Tutto ciò potrebbe contribuire a far superare quei problemi, e quei dubbi, che possano indurre la donna a prendere una decisione così forte e radicale.
Per esempio, solo dopo essersi rivolte ad un Consultorio le donne possono scoprire di avere il diritto di partorire nel più totale anonimato e di poter affidare il bambino alla struttura ospedaliera senza essere costretta ad assumere alcun obbligo o vincolo nei confronti del nascituro.
Lo scopo di queste informazioni è chiarissimo: l’aborto deve essere garantito ma deve essere la soluzione estrema e non deve essere basato sulla paura di perdere il lavoro oppure su timori legati al fatto di rimanere sole a gestire la nascita e la crescita di un bambino.
I casi che consentono di ricorrere all’aborto sono strettamente disciplinati dall’articolo 4 ove si legge
“la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”.
Nessun intervento previsto per la figura paterna
Fino a questo punto abbiamo solo parlato della donna: non si tratta di una scelta volontaria poiché è la stessa Legge che all’articolo 5 prevede che il padre non può intervenire sulla decisione della madre di interrompere la gravidanza.
Al padre, sempre nel medesimo articolo, è solo concesso, sempre che la madre lo voglia, di partecipare alle sedute presso il consultorio, presso il medico di fiducia o presso la struttura sanitaria.
Obiezione di coscienza
La legge prevede la possibilità per il ginecologo di esercitare l’obiezione di coscienza, ma nessuna obiezione può essere sollevata nello specifico caso previsto dall’art. 9, comma V, ovvero quando “ indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”.
Relativamente all’obiezione di coscienza si rileva che in data 11 Aprile 2016 il Comitato Europeo dei Diritti Speciali, che è un organismo del Consiglio d’Europa, ha condannato l’Italia per aver violato il diritto alla salute delle donne che vogliono abortire perché le stessa hanno incontrato notevoli difficoltà d’accesso ai servizi di interruzione della gravidanza anche per l’alto numero di medici obiettori di coscienza.
Negli ultimi anni, la percentuale di ginecologi obiettori è salita di oltre il 10%: nel seguente link potrete trovare i dati (aggiornati al 2016) regione per regione. Link.
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