“Se non ti dispiace durante la chiacchierata mi cucinerò una pasta, quindi sentirai qualche rumore!“
Matteo mi accoglie al telefono con entusiasmo e un’irresistibile risata contagiosa. È pomeriggio ormai inoltrato e dall’altra parte della cornetta sento trafficare con pentole e ingredienti. “Sai, sono appena rientrato dal lavoro!“.
Gli dico che non c’è problema e ci mettiamo a nostro agio, stabilendo un’empatia immediata. Non è consueto in un’intervista telefonica. Gli dico che ho letto altre sue interviste in giro per il web. “La cosa è un po’ sfuggita di mano, oggi ho fatto un’intervista per El Paìs“. Sorride, sorridiamo. Rotto il ghiaccio, entriamo nel vivo della chiamata e parliamo di “Peace, love and provocation”, che da qualche settimana è diventata un vero e proprio scatto virale sul web.
Un messaggio di pace, coraggioso, quasi sfacciato, che mette in scena un bacio a Gerusalemme tra due uomini (Matteo e il suo compagno Riccardo). Ma non è tanto il bacio nella Città Santa ad aver fatto scalpore (o meglio, non solo quello), quanto la kefiah che cinge il capo di Matteo e la kippah sulla testa di Riccardo, che alzano la posta della provocazione in una città in cui il conflitto religioso è all’ordine del giorno. Nessuno, prima d’ora, aveva osato rappresentare ebraismo e islam che si riflettono nell’immagine di due uomini innamorati, per dimostrare che un futuro di amore e convivenza è possibile. Gli chiedo se per caso è stata una foto studiata a tavolino.
“Non proprio. La sera prima io e Riccardo, in Israele per Capodanno, eravamo a Tel Aviv e siamo stati accerchiati in bicicletta da un gruppo di ragazzi che ci parlavano in arabo, come accade nei migliori film. In questi casi bisogna avere la prontezza di reagire. Ho afferrato i manubri e ho detto loro “sparite subito o chiamo la polizia“.
Vi sarete spaventati.
Più che altro questo episodio mi ha dato da pensare. Io provengo dall’attivismo, ho sempre fatto politica, militanza, anche nelle associazioni e quando succedono queste cose, ovunque mi accadano, non mi lasciano indifferente. Non è una questione di razza, religione o etnia, sarebbe potuto succedere a Roma o in qualunque altra parte del mondo. Bisogna avere il giusto sangue freddo. A noi è accaduto a Tel Aviv, città molto gay-friendly e lì per lì non te lo aspetti, ma ad esempio mi è successo anche in Spagna, a Madrid.
Tutto quindi è partito da questo episodio a Tel Aviv. Come hai sviluppato poi l’idea dello scatto?
Il giorno dopo io e Riccardo eravamo a a Gerusalemme. Una città dove c’è un conflitto perenne e convivono diverse religioni, e che per forza di cose ti rende piuttosto cauto negli spostamenti. Abbiamo visitato il Muro del Pianto e il Santo Sepolcro, e da laico confesso di aver pianto in entrambi i posti perché è un ambiente che ti cattura. Così come ti cattura la tensione che avverti perché ci sono posti di blocco e polizia a ogni angolo. Comunque faceva freddo, ho comprato la kefiah e l’ho indossata. Avevamo anche una kippah, perché eravamo stati al muro del pianto, e pranzando ho detto a Riccardo “la facciamo una provocazione?”. Immagina che siamo andati in giro tutto il giorno così, lui con la kippah e io con la kefiah, per cercare il punto giusto per la foto.
Beh quindi già così eravate una provocazione ambulante!
Esatto! Eravamo nel quartiere musulmano, pensa. Poi ho scoperto che ci facevano foto per strada. Molti ci fermavano, dicendoci che non fosse il caso, e la polizia ci aveva invitati ad uscire dal quartiere. In quella città si vive una tensione continua. Comunque alla fine abbiamo trovato la nostra bella porta turchese, poco distante dalla moschea, e abbiamo cominciato a farci dei selfie. È sbucato poi un ragazzo spagnolo, un turista, e alla fine la foto ce l’ha scattata lui. Oggi siamo in contatto con lui attraverso i social.
Immagino fosse pieno giorno. Qual è stata la reazione dei passanti?
Sì, era giorno. Alcuni si fermavano, ci guardavano male, cercavano di capire se fosse un flash mob o qualcosa di reale. Alcuni ci hanno anche detto qualcosa, ma vai a capire. Poi un ragazzo israeliano si è avvicinato e ci ha accompagnato fuori dal quartiere.
Che messaggio volevi trasmettere con la foto?
Un messaggio di pace. Gerusalemme ultimamente è tornata al centro della questione politica perché da quando c’è Trump è stato legittimato lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme. E in molti hanno espresso la volontà di seguirlo, compreso il nostro folle ministro dell’interno che ha dichiarato di voler spostare l’ambasciata italiana da Tel Aviv a Gerusalemme. Penso sia un insulto a tutti i popoli e a tutte le religioni del Mediterraneo, e il voler mettere semplicemente altra legna al fuoco che arde.
Quali differenze hai riscontrato nel modo di vivere tra Tel Aviv e Gerusalemme?
Sembrava di stare in due paesi diversi. A Gerusalemme non riesci a capire se sei in una città occidentale o araba. Dà un buon senso di spaesamento. Tel Aviv è una città dove anche addentrandosi nella zona musulmana la gente convive felice, nei bar si vedono questi mix gioiosi. A Gerusalemme solo sguardi fugaci di gente che si infila nei vicoli, raggiunge i luoghi di preghiera e poi torna nei propri quartieri, anche perché costretti dalla polizia. Una vera e propria divisione etnica. Vivere da omosessuale nei paesi musulmani, e quindi anche in Palestina, non è davvero fattibile, infatti molti omosessuali islamici hanno trovato rifugio in Israele, e soprattutto a Tel Aviv che rappresenta un’isola felice. È una città con tante contraddizioni, ma è davvero bella.
Torniamo alla foto. Perché l’hai chiamata “Pace amore e provocazione”?
L’intento era quello di fare gli auguri “al mondo” per il nuovo anno, nella speranza che sia un anno di pace – da qui Peace and Love – e poi questo è un anno particolarmente caro agli attivisti perché si celebrano i 50 anni dai Moti di Stonewall. Il nostro movimento, senza la “provocazione” non sarebbe arrivato da nessuna parte. Se 50 anni fa a Stonewall gay, lesbiche, travestiti, puttane, senza tetto, drag queen, se non fossero scesi in strada con i tacchi a spillo provocando l’opinione pubblica, non avremmo ottenuto oggi quello che abbiamo. Le loro idee in questi 50 anni hanno camminato sulle nostre gambe, e adesso spetta a noi che abbiamo ottenuto quel poco aiutare chi ha difficoltà nel vedere riconosciuti i propri diritti. Il rischio però è di imborghesirsi, mettere trucchi e tacchi da parte e pensar che rivendicare i nostri diritti in giacca e cravatta sia l’unico modo possibile. Non ho mai voluto sentirla, ‘sta cosa. Da cittadino del mondo, tutto ciò che c’è di bello attorno a me, anche solo per un giorno può diventare il mio travestimento.
Quando ti sei reso conto scatto virale?
Lo scatto è stato caricato due volte, la foto intera e quella tagliata, che è andata di più. Sin da subito però devo dire che c’è stata una certa attenzione attorno alla foto, anche grazie ad hashtag giusti. Alcuni mi hanno accusato di aver fatto una foto acchiappalike. Ma non capisco: tutti hanno Instagram ormai, che cosa fanno con quel dito se non mettere like?
Hai avuto rimostranze da da esponenti religiosi?
Sì. Ho letto i commenti più vari, anche beceri, di violenza. Penso che chi ha un culto, o si sente partecipe di una fede non possa mettere nella propria bocca certe parole. Questi “signori del culto”, invece, si sentono sempre al di sopra delle loro parti. Non so se c’è un Dio ma penso che ci litigherà prima o poi.
Qual è la cosa più strana che ti è capitata da quando lo scatto è diventato virale?
Mah, un po’ tutto sinceramente. Ecco, in palestra la gente vuole controllare se sono ebreo o musulmano e magari mi chiede se sono circonciso! (ridiamo).
Ti faccio un’ultima domanda. Matteo. Alla luce di tutto questo, cos’è per te la provocazione?
Io sono un tipo molto provocatorio. Penso che sia un po’ quello che muove, e ha mosso, tante parti della mia vita nel bene o nel male. Provocare nell’altro una reazione positiva o negativa che metta in connessione due o più persone su livelli diversi, può far scaturire qualcosa di positivo se gli interlocutori sono attenti o intelligenti. In questa società la provocazione è alla base di tutto, si provoca semplicemente per farsi notare o per suscitare un’emozione, penso che esserci riuscito in silenzio, con un bacio, non me lo sarei mai aspettato dalla mia persona, che è molto più irruenta.
L’intervista è finita, e auguro a Matteo tanti nuovi scatti “provocatori”. “Questa settimana sono stato a Budapest, terra di Orban.” mi rivela in tutta confidenza. “Ci ho pensato e lavorato, lo vedrete a breve!”
E noi lo aspettiamo.
Instagram: Matteo Otto Menicocci
Le Libertà che a noi sembrano scontate per molti sono un miraggio.
Matteo Menicocci, 2019
Chissà quanti Omosessuali ogni giorno fuggono dalla Palestina o da Paesi Arabi dove l’essere Gay corrisponde molto spesso alla morte o l’emarginazione? E quanti altri vivono il silenzio e sofferenza la propria identità a causa di un ambiente familiare tradizionalista, temendo di far soffrire i propri cari e sono disposti a vivere nell’armadio? Quanti scappano o accettano i soprusi di Usanze Estremiste? Quanto sappiamo delle migliaia di Uomini e Donne, che ogni giorno intraprendono il viaggio della speranza in mare aperto,o scavando muri eretti da stupidi uomini, sognando l’Europa? L’Europa dei Diritti, anche sessuali, nella quale sognano di vivere con Orgoglio la propria diversità? “Il sogno Europeo” esiste, solo noi Europei però oramai facciamo fatica a vederlo. Le Libertà che a noi sembrano scontate per molti sono un miraggio. Quello che succede nel Mediterraneo mi riguarda da vicino, che voi lo comprendiate o no, vivo in questo mare di lacrime e speranze. Non rimarrò indifferente.
Sarebbe un vero Miracolo vedere scorrere la Pace in Terra Santa, se qualche Dio è in ascolto, prenda lui in carico questa sfida. Perché gli uomini qui giu, colgono ogni pretesto per continuare questa sfida Maschilista che fino oggi ha visto scorrere solo tanto sangue. Non mettiamo più fiori nei vostri cannoni, ci si china solo per poggiarli su infinite distese di bare. Non mi arrenderò mai a questi finti predicatori di Pace, nel nome di quale Dio portate tanto Odio?