Giornaliste, attiviste, poliziotte, sociologhe, avvocate. Donne che quotidianamente lottano contro la criminalità organizzata, che hanno deciso di non volgere lo sguardo da un’altra parte o di cambiare il proprio percorso per evitare di addentrarsi nel tema. Sono donne che deliberatamente vogliono far luce e chiarezza, vogliono raccontare, perché «il racconto ha il potere di strappare all’oblio la realtà delle cose».
Donne che si sono esposte e si espongono esattamente come gli uomini, a volte anche di più; che stanno provando a cambiare le sorti del nostro paese, lo stesso paese che oggi non è ancora in grado di garantire loro una parità di genere.
La prima donna nel servizio scorta
Alcune di loro hanno perso la vita per gli ideali di giustizia e legalità, come Emanuela Loi, fra le prime donne adibite al servizio scorta. Era una “donna poliziotta“, termine con cui si chiamavano le femmine che decidevano di arruolarsi, ribadendo il loro genere prima della loro professione, come se la loro categoria fosse diversa dai quella dei colleghi uomini e per questo si dovesse distinguere.
Emanuela Loi è stata la prima poliziotta ad essere uccisa in servizio, il 19 luglio 1992, nella strage di via D’Amelio, pochi giorni dopo aver rassicurato i suoi genitori sul suo lavoro.
Come la medaglia in suo onore recita: «Preposta al servizio di scorta del giudice Paolo Borsellino, pur consapevole dei gravi rischi cui si esponeva a causa della recrudescenza degli attentati contro rappresentanti dell’ordine giudiziario e delle Forze di Polizia, assolveva il proprio compito con grande coraggio e assoluta dedizione al dovere. Barbaramente trucidata in un proditorio agguato di stampo mafioso, sacrificava la vita a difesa dello Stato e delle Istituzioni».
Giornaliste sotto attacco
Altre donne rischiano ogni giorno la loro vita, esposte al pericolo perché mettono nero su bianco la realtà che osservano, in cui vivono. Come Federica Angeli, la prima ad affermare la presenza della mafia ad Ostia, con il clan Spada al comando.
Pagine e pagine di articoli, che per anni le sono valsi l’etichetta di pazza, anche dai colleghi che le chiedevano chi glielo facesse fare, avendo una famiglia. «Ho fatto tutto per i miei figli, per consegnare loro un mondo migliore. E lo rifarei» ricorda lei a chiunque glielo domandi, nonostante i duemilasettecentottantanove giorni sotto scorta.
Altre donne hanno dovuto lasciare la loro terra per poter continuare a fare il loro lavoro. Ad esempio Angela Corica, ha lasciato il suo paese natale nella Piana di Gioia Tauro. «Durante il mio percorso di crescita professionale, hanno tentato più volte di mettermi i bastoni fra le ruote». Aveva venticinque anni quando si è ritrovata l’auto crivellata di colpi di pistola. «Era un avvertimento. Avevo appena cominciato a fare questo mestiere ed evidentemente lo facevo in un modo che disturbava il quieto vivere del mio paese».
Di un’altra cosa la Corica è convinta. Saranno le donne a cambiare il sud. “Non mi riferisco solo alle donne che stanno dentro alla mafia, ma anche alle donne che la combattono dall’esterno. Come il magistrato Alessandra Cerreti che ha seguito sia la collaborazione di Giuseppina Pesce che quella di Maria Concetta Cacciola. È stato anche merito suo se queste donne hanno scelto di collaborare. Si sono fidate di lei, perché secondo me l’hanno vista proprio come una sorella o una madre. Questo tipo di solidarietà fra donne, forse, può veramente far cambiare le cose”.
Conoscere per combattere
Se molte scrivono di questo fenomeno nei giornali, altre riempiono intere pagine di libri. Sono molte anche le studiose, sociologhe di criminalità organizzata, anche se in quelle poche occasioni in cui si chiede il parere di un esperto si finisce quasi sempre per interpellare i soliti due nomi, uomini.
Nonostante siano tante coloro che divulgano alle nuove generazioni l’importanza di conoscere e studiare questi fenomeni per saperli riconoscere e di conseguenza contrastare. Le loro cattedre sono sparse in tutta Italia, da quella di Milano di Ombretta Ingrascì alla palermitana di Alessandra Dino, legate anche da uno dei loro filoni di ricerca: il ruolo delle donne all’interno delle organizzazioni mafiose.
“L’avvocato fimmina”
Narrando l’universo dell’antimafia al femminile è impossibile non concludere citando l’avvocata Civita Di Russo, sconosciuta ai più. È stata la prima donna a difendere i pentiti di mafia. Ha partecipato ai più importanti processi di mafia, ha sostenuto in un’aula di tribunale lo sguardo di Totò Riina, La Belva. Vive sotto scorta da diverso tempo ma volete sapere qual è stata la cosa più difficile nella sua vita? Riuscire a farsi strada in un mondo in cui il potere patriarcale è un dogma, in cui fino a pochi anni fa una fimmina, non sarebbe mai stata all’altezza di prendere le difese di un boss.