Nella mentalità comune è diffusa l’idea che nella ‘Ndrangheta, così come in tutte le altre mafie, il genere femminile sia del tutto escluso all’interno dell’organizzazione criminale.
Quest’antica ed obsoleta monosessualità mafiosa si può in realtà smentire facilmente.
Le prime donne del clan
Le donne sono sempre state presenti all’interno della ‘Ndrangheta, e da sempre le affiliate hanno avuto la loro carica formale, seppur molto difficile da ottenere: sorella d’omertà.
Già alla fine del XIX° erano state pronunciate condanne contro ‘ndranghestiste, come quella risalente al 1892, di Concetta Muzzupappa e Rosaria Testa di Rosarno. Le due furono condannate perché appartenenti all’associazione mafiosa e colpevoli di rapine ed aggressioni, che effettuavano travestite da uomini.
L’insegnante ‘ndranghetista
Il ruolo più importante della donna all’interno dell’organizzazione è da sempre però quello di contribuire alla creazione dell’esercito mafioso, educando e formando i loro figli, quelli che l’indomani sarebbero diventati gli esponenti al vertice dell’organizzazione.
La madre, in quanto insegnante della dottrina ‘ndranghetista, trasmette ai figli il codice culturale mafioso, alimentando il sentimento della vendetta, salvaguardando la reputazione maschile (che garantisce agli uomini di essere formalmente affiliati alla mafia) attraverso la rispettabilità e l’onorabilità e tramandando alle figlie il loro ruolo di merce di scambio nelle politiche matrimoniali: le donne infatti sono il tramite con cui due famiglie rivali riescono a riappacificarsi e giungere ad un compromesso.
Il compito di trasmettere la subcultura mafiosa avviene all’interno della famiglia, perché nella ‘Ndrangheta quella di sangue coincide, quasi sempre, con la cosiddetta famiglia di affiliazione: il gruppo criminale.
Lea Garofalo, un’altra via
La storia ci racconta però che non tutte decidono di rimanere all’interno del circuito mafioso. A costo della vita, come nel caso di Lea Garofalo, uccisa perché voleva dare alla figlia una vita migliore, molte decidono di allontanarsi, chiedendo aiuto allo Stato, colui che fino al giorno prima era il nemico.
Queste donne vengono definite ribelli dalla ‘Ndrangheta, che il più delle volte cerca di farle passare come pazze per far valere il meno possibile le loro parole davanti ai giudici ma soprattutto perché una donna che pone fine alla sua condizione di sudditanza imposta dal clan potrebbe diventare un modello per altre. Qualcuno potrebbe comprendere l’esistenza di un’altra via, una prospettiva di riscatto anche se pericolosa e faticosa.
E la ‘ndrangheta sa benissimo che senza le sue donne non sarebbe quella che è oggi.