di Mauro Di Ruvo
Critico d’arte, grecista, latinista e medievista, si occupa di diritto romano a Perugia e di politica interna presso il giornale Lanterna. Scrive di attualità politico-sociologica e di giurisprudenza per “OpinioJuris. Scrive di storia medievale e filologia romanza presso Iuncturae,”.
Si è occupato di Estetica cinematografica e filosofia del linguaggio audiovisivo a Firenze presso la storica rivista Nuova Antologia e collabora con la Fondazione Spadolini.
– Per questo 2025 sarà un’altra la novità che percorrerà il nostro santo Giubileo. E sarà proprio un suo diretto antagonista che si pone apparentemente in antitesi rispetto all’icona dell’arte cristiana.
Di fronte alla tradizionale esemplarità del realismo cristiano l’assenza della verosimiglianza della natura continua tutt’oggi ad essere ricusata dal principio di Fides et Caritas cattolico. Tuttavia non tutto ciò che è inverosimile è anche aniconico della fede cristiana, specialmente quando la forma astratta dal naturalismo è una imitatio imaginis della Genesi cosmica.
Alberto Moravia in una intervista rilasciata il 26 aprile del 1972 sulla Cortigiana romana (1930) di Scipione affermava che «l’arte esprima sempre ciò che è inconscio, cioè l’arte non dice nulla di esplicito ma dice molto nonostante l’artista, o proprio in quanto l’arte è appunto l’espressione di ciò che è represso». Per la sua implicita discoperta del represso, l’atto dell’Arte non può che essere una continua astrazione della vita nell’idea materiale.
Scipione era però lontano con la sua Cortigiana dalla rappresentazione della Città Eterna che ne fa Moravia con la sua La Romana, pubblicata nel 1947 e riedita da Bompiani nel 2017 con una lucidissima introduzione critica di Davide Conrieri. Nella Romana si ha uno strettissimo rapporto tra l’ispirazione e l’archetipo.
Più precisamente il testo è ispirato proprio alla decadenza dell’universale e monumentale classicità di Roma assurta a nuovo simbolo fascista del Mondo rappresentata nella proto-astratta pittura di Scipione, per il quale è divenuta la bellezza “con il dettame” una anziana prostituzione dell’umanità.
La “nuova Messalina” ritratta dal giovane Scipione è l’antifrasi implicita che regge il racconto del romanzo moraviano, dove la protagonista traduce nella parola l’immagine parallela d’una fanciulla ventenne che così passivamente indifferente alla Bellezza, incarna il fantasma dell’Arte, la sua assenza nella contemporaneità.
In qualche misura, della intraducibilità dell’immagine dalla letteratura alla pittura per via della sua radice definibile morale, cioè legata alla natura, né accennò Alessandro Del Puppo nel suo saggio Egemonia e Consenso nel 2019 per l’edizione Quodlibet.
L’arte perde la sua ricerca nella dimensione del reale non appena essa assume lo statuto d’arte, siccome già l’Ariosto, in clima di dettame controriformistico, fece finire il Furioso per la sua smaniosa ricerca del Paradosso reale nella rarefazione dell’idea lunare.
La pittura si è scaricata della sua potenza immaginifica nel momento in cui la letteratura è stata indagata durante la sua lettura stessa, ovvero durante la sua creazione. L’opera che indaga la sua mano, genera la sua astrazione e cancellazione dal tessuto materiale dello spazio e tempo.
Ci è a riguardo d’aiuto il libro di Nathalie Heinich Il paradigma dell’arte contemporanea. Strutture di una rivoluzione artistica uscito in Italia nel 2022 per i tipi di Johan & Levi, non solo per meglio comprendere ciò che noi chiamiamo tuttora decadenza dell’arte durante la nostra permanenza dentro un contemporaneo di cui non si individua bene ancora l’inizio e la possibile fine, se ne esiste una. Ma anche per individuare le strutture che oggi potrebbero trasformare la nostra abitudine all’astrazione come lecito e spontaneo effetto di una corrente, quale l’astrattismo, che è divenuta tutta fenomeno economico sociale.
L’astrattismo è stato preceduto nella sua forma pittorica proprio dal libero flusso indiretto della Coscienza di Zeno pubblicata nel 1923 a Bologna, come primo tentativo da parte di Svevo di astrarre l’immagine nella sua purezza universale ed espressiva dal dettame grammaticale linguistico appesantito proprio dalla tradizione stancamente imitativa piuttosto che emulativa.
Da qui s’è aperto il primo passaggio di quello spirito creativo e critico di evocare l’armonia del cosmo e non del mondo, del disordine e non dell’ordine. Uno spirito che dopo essere stato sepolto dal correntismo d’avanguardia post-fascista e futurista, oggi tuttavia sembra essere rinato ex novo in un’arte che si fa lettera del Tempo.
Un’arte come quella dell’acheruntino Antonio Telesca che attraverso la sua eideia pittrice racconta il nostro essere mortali mostrando le stringhe composite del Caos.
Il cosmo ricercato alla sua origine per indagare il mondo degli uomini è il vero empito sociale che riveste Telesca di quel manto poetico che in età arcaica ricoprì Esiodo medesimo.
E sempre in accordo esiodeo, “Cosmogonia” è il titolo che merita la sua opera omnia, nella quale chiunque si trova partecipe, si accorge di essere immerso in una rete labirintica dell’universo, lontano, astratto alla ragione umana.
Questa l’originalità che rende l’autografia di Telesca la manifestazione di un “nuovo idealismo” non solo lontano dall’eredità dell’avanguardie astrattiste ma anche innovatore della tradizione letteraria di matrice huxleyiana.
Se l’astrattismo aveva perso il suo ruolo “ideale” di compromesso tra la pittura e la letteratura, ora un “nuovo idealismo” rinasce come sintesi tra mimesis e poiesis, tra rappresentazione e composizione, tra icona e parola.
Due tra le sue opere riescono meglio a esemplificarci questa sintesi a livello visivo e narrativo: Atomi e Nascita di una supernova.
Il primo Atomi (2023) è un dipinto realizzato ad acrilico su tela, di dimensioni 35×50 cm, che si distingue per la sua lingua non più così vicina al formalismo astratto guttusiano, bensì prossimo al surrealismo.
Non è infatti un tipico soggetto figurativo, se rintraccia l’eco di quel nichilismo baudelairiano, così leggermente definito e suscettibile di nevrotici impulsi esistenziali.
Un dinamismo della linea che si inerpica nodosa sullo stesso spazio disegnato dal pensiero.
Viene trasposta sulla tela una fitta intertestualità di bolge dantesche, in ciascuna della quale è intrappolata la condanna dell’impotenza mortale.
Si intende allora che non è la volontà dell’artista la rappresentazione simultanea e realistica dell’elemento chimico indicato dal titolo, quanto la metamorfosi straniante dell’atomo oggetto naturale e cellulare del reale, in una forma, un eidos epicureo, di agnizione ideale della coscienza. La sfera epicurea quindi metafisica condensa la circolare “bolgia atomica” all’interno di uno sfondo accordato sul tono oro, che teatralizza il meccanismo vitale dell’umanità, lo spettacolarizza in chi si rivede uomo al microscopio del caos.
È l’angoscia dell’insoddisfazione della specie il sipario che l’artista ha qui voluto calare, il suo “dramma elettrolitico”, quello che Telesca maschera nel precetto pasoliniano della “assurdità liberale della idea capitale”. È la primizia dell’arte per la sua esistenza fallibile fuori dalla democrazia.
L’altra opera Nascita di una supernova (2024), dell’anno appena concluso, è anch’esso un acrilico 40×40 cm, che presenta una nomenclatura parimenti e dalla sembianza astratta dal “fare degli uomini”. Un titolo di natura squisitamente astronomica, che sfiora il limite anche qui della ragione fisica. Anche qui però v’è una narrazione oggettuale che fatica a rimanere fedele nella percezione visuale alla scelta nominale del dipinto.
La supernova indicata dal titolo non è nascosta sotto il velo di una pittura allegorica, ma nemmeno è ben espletata in una iconografia che comunque sfugge ai precedenti schemi iconografici.
È una forma che accorda i principi hegeliani di quella ‘fenomenologia dello spiritò secondo i quali l’arte scompare d’essere un artefatto se nella materia apre un varco illusivo, di crisi quasi omeopatica.
Se la composizione non riesce a comunicare la nascita di una supernova, ma riesce nella sua generale rappresentazione a inglobare l’idea dello stato globale delle cose, l’idea propria e sua della fugacità ansiosa senecana delle gesta terrene e dell’oppressione davanti alla morte della parola, di una qualsiasi che si manifesta poetica dall’immagine, allora essa, l’arte, è il fenomeno del nostro spirito.
Telesca ama la diaspora universale, e la ama non solo come nucleo tematico, ma soprattutto come principio vitale profondamente vissuto.
La libertà concessa all’uomo dal caos della sua stessa mano, è quella meno prevedibile e più irraggiungibile così come il pensiero di potenza del luogo che abita, il mondo. Siccome un rito apotropaico, il labirinto è l’unico spazio adibito all’uomo libero. Il nuovo idealismo è il nuovo lirismo cosmico, la nuova Luna della nostra follia.