Cinema: Esce nelle sale il docufilm di Pierfrancesco Campanella sui favolosi Anni Sessanta.
Emanuele Pecoraro intervista per noi: Pierfrancesco Campanella
Nella seconda metà degli anni Sessanta esplose anche in Italia il fenomeno della beat generation. Nato su imitazione della musica soul e rhythm and blues, quando l’onda eversiva del rock and roll andava oramai affievolendosi, e sulla scia di romanzi americani quali Il giovane Holden di Jerome David Salinger e Sulla strada di Jack Kerouac, il fenomeno beat assunse in Italia dei caratteri particolari.
Ce li illustra il regista Pierfrancesco Campanella che Il 21 novembre arriverà nelle sale cinematografiche con il docufilm: C’era una volta il beat italiano. L’opera, impreziosita dalla viva voce dei tanti addetti ai lavori che quell’epoca l’hanno vissuta da vicino, vuole rendere omaggio ad una stagione musicale irripetibile, immettendo sul mercato tanti successi indimenticabili, rimasti impressi nell’immaginario collettivo.
Non sei certo nuovo al linguaggio del documentario: qualche anno fa la critica ha accolto favorevolmente un tuo docufilm dedicato a Marco Ferreri. Com’è nata l’idea di un documentario dedicato alla musica degli anni Sessanta?
Sono cresciuto con quelle canzoni e soprattutto, anche se ero bambino, conservo vivo il ricordo di quegli anni pieni di creatività, fermento ideologico, cambiamenti sociali e rivoluzioni nella moda e nel costume. Tutte cose che non ritrovo nell’appiattimento e nella omologazione del mondo attuale.
Da alcuni anni alla tua attività di regista alterni anche quella di giornalista, curando una rubrica sul mensile Raropiù. Oggi le riviste che si occupano di musica sono ridotte al lumicino ma all’epoca che importanza ebbe la stampa periodica nella diffusione del fenomeno beat?
Tantissima importanza. C’erano in particolare “Giovani”, “Ciao amici”, “Big” (queste ultime due poi fusesi in “Ciao Big”) ed altre. Per i ragazzi dell’epoca erano una specie di Bibbia: da lì partivano i successi discografici e le carriere di molti artisti emergenti. Ricordo ad esempio il primo articolo sulla ancora completamente sconosciuta Patty Pravo, ad opera del compianto Piero Vivarelli, che recitava nel titolo “Io i ragazzi me li fumo come sigarette”. Quel servizio sconvolse i lettori ma diede il via al mito Patty Pravo.
Che ruolo ebbe invece la radio?
Fondamentale, perché era l’unico modo per ascoltare la nuova musica, soprattutto quella proveniente dall’estero. Allora c’erano solo i canali Rai con trasmissioni come “Bandiera gialla” di Gianni Boncompagni e “Per voi giovani” di Renzo Arbore. In alcune regioni italiane si ascoltavano anche le trasmissioni di Radio Montecarlo e Radio Capodistria, con stile e linguaggio meno convenzionali e più moderni.
Non a caso tra le primissime canzoni di musica leggera trasmesse da Radio Vaticana ci fu Ragazzo triste di un’allora poco nota Patty Pravo. Quanto ha contribuito la cultura beat a proporre un nuovo modello di donna moderna ed emancipata?
La cultura beat si basava proprio sul sovvertimento delle regole, sullo svecchiamento dei valori. Il movimento femminista nacque per l’appunto dall’esigenza di dare alle ragazze un nuovo status, abbattendo lo stereotipo della donna-oggetto.
Tra le ragazze che animavano il Piper, mitico locale di aggregazione dei giovani beat, c’era anche Mita Medici che non a caso è tra le protagoniste del tuo nuovo docufilm.
Mita, come Patty, a sua volta ha incarnato il modello punto di riferimento per le coetanee. Un personaggio fondamentale per quella generazione.
Tra le interpreti femminili esplose tra gli anni Sessanta e settanta quali altre cantanti sono presenti nel tuo film?
Si parla molto, oltre che ovviamente della Strambelli, anche della Pavone e della Caselli, che però non sono presenti fisicamente. In compenso c’è Rosanna Fratello che nel periodo beat ancora non cantava ma si appassionava al repertorio di quelle che più in avanti sarebbero diventate sue colleghe e cioè proprio Nicoletta, Rita e Caterina.
Alla scrittura de “Il volto della vita”, successo con cui Caterina Caselli trionfò al “Cantagiro” del 1968 partecipò anche Claudio Daiano…
Un artista geniale, personaggio fuori dagli schemi, di una simpatia contagiosa. Con lui ho legato all’istante!
Il beat diede modo anche a tante nuove band di esplodere nella discografia italiana.
Come no… Giganti, Dik Dik, Camaleonti, Equipe 84 e tanti altri gruppi che hanno lanciato canzoni immortali, anche se spesso erano cover di successi stranieri.
Tra gli idoli delle ragazzine c’era anche un autentico “rubacuori” come Renato dei Profeti.
Passato poi, attraverso gli anni, da idolo delle ragazzine al ruolo più impegnativo di autore e produttore discografico. A lui si devono per esempio successi di Eros Ramazzotti, Alice e Viola Valentino.
Spesso ci si dimentica dell’importanza che hanno avuto gli autori nel confezionare abiti su misura per i loro interpreti.
Gli autori sono spesso trascurati e invece il loro è un ruolo fondamentale. In “C’era una volta il beat italiano” ho avuto l’onore di intervistare un grande paroliere come Alberto Salerno, che ha iniziato giovanissimo collaborando col complesso di culto I Corvi.
Le canzoni dell’epoca beat vennero anche utilizzate per veicolare dei messaggi pacifisti, soprattutto mentre i soldati americani erano impegnati al fronte nella contestatissima guerra del Vietnam…
Una su tutte “C’era un ragazzo…” di Gianni Morandi, composta da Mauro Lusini. Però i brani di questo genere venivano visti di malocchio dalla censura radiotelevisiva dell’epoca, in quanto considerati “disturbanti”.
L’epoca beat ha subito una rinascita anche negli anni ottanta. Penso a pellicole revival di grande successo come “Sapore di mare” dei fratelli Vanzina o ad album come “2060 Italian Graffiati” grazie al quale Ivan Cattaneo riprese e riarrangiò tanti successi dei favolosi anni sessanta.
Non a caso Ivan è presente nel mio docufilm, proprio per parlare di revival, a testimonianza del fatto che i pezzi beat hanno lasciato una traccia indelebile nel panorama musicale. Cattaneo, altro personaggio simpaticissimo!
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Nell’immediato un altro documentario dedicato alla stagione del rock progressivo e poi, forse, uno imperniato sulla dance Made in Italy.