
di Mauro Di Ruvo
È di mercoledì, l’altro ieri, la notizia proveniente da Parigi. Il museo più grande al mondo sta per essere totalmente “ridisegnato, restaurato e ampliato” a seguito della decisone presa pubblicamente da Macron nel suo discorso tenuto proprio dinanzi al dipinto da cui tutto è partito: la Monna Lisa.
Ha dichiarato che è un “privilegio” che il capolavoro più famoso al mondo di Leonardo Da Vinci sia ospitato ancora nella sale del museo napoleonico. Ma non in quella sala, ha affermato Macron, continuerà a permanere.
Nel disegno di restauro dell’intero Louvre, per il quale è prevista anche l’eventuale eliminazione della piramide d’ingresso, rientra la costruzione di una nuova sala sotterranea al cortile Carrè dove la Gioconda potrà essere visitata con un biglietto speciale a parte, garantendo agli spettatori una maggiore godibilità museale del dipinto, insieme a una maggiore sicurezza (anche termica) e autonomia di conservazione.

Ma pochi giorni prima si era parlato addirittura di una sorta di messa all’asta in Europa per lo spazio ricevente del capolavoro da ospitare. Un annuncio che suonava per tutti come “La Gioconda cerca casa” è apparso stridulo alle orecchie di molti italiani. Sarebbe ritornato per un momento sul suolo italico quell’orgoglio patriottico, per il quale solo il Paese “genitore” può essere in grado di essere il suo “tutore”, misto al calcolo machiavellico per il quale ospitando la Gioconda in Lombardia si concilierebbe l’utile e il dilettevole.
La proposta avanzata dalla assessora regionale alla Cultura Francesca Caruso, di voler ospitare il Da Vinci parigino a Milano, di fronte ai seri problemi conservativi che minacciano oggi l’opera nel museo francese esposti dalla direttrice Laurence Des Cars, non è troppo lontana dalla imperdibile opportunità di sensibilizzare pubblicamente una paternità italiana mai riconosciuta finora tanto lecita sull’enigmatico dipinto.
“Una ‘ospitalità’ – dice l’assessore Caruso – che avrebbe un significato ancor più forte se proiettata in vista delle Olimpiadi di Milano-Cortina 2026. Sarebbe il miglior modo per rendere fruibile questo splendore del genio italiano al grande pubblico che verrà in Lombardia e deciderà di visitare le opere di Leonardo Da Vinci in quello che amo chiamare ‘circuito vinciano’”.
Il Comune di Milano, insieme alla Regione Lombardia, sono stati i primi a esporre la necessità di trasloco della Gioconda, non tanto per rimediare alla precaria condizione conservativa del Louvre, quanto più per rimarcare il loro patrocinio morale sottratto da secoli dell’opera vinciana.
Il ritratto di Monna Lisa, la cui discendente giorni fa non si è anch’essa esonerata dall’intervenire favorevolmente alla proposta lombarda, ha subito vari tentativi, quasi tutti fraudolenti, di asporto e di rivendicazione paternalistica sin dal Settecento. Tutti mossi per la maggior parte da istituzioni e soggetti privati italiani.

È infatti quello della Gioconda un caso che è descritto lecitamente presso l’antologia nazionale come “furto d’arte” che va collidere col più grave “furto d’identità”. Ma lo è anche descritto ingiustamente invece come “patrocinio” italiano, siccome l’opera non è mai davvero appartenuta alla nostra nazione essendo stata creata, su tesi oggi più accreditate dalla critica, proprio come apophòreton, ossia letteralmente “dono da portar via”. Era infatti questa una pratica diffusa negli ambienti regali e principeschi del Cinquecento, e che sarebbe invalsa nel caso di Da Vinci col re Francesco I.
Dalla testimonianza scritta, infatti, di Antonio de Beatis, segretario del cardinale Luigi d’Aragona, nel 1517 egli avrebbe visto l’opera nel castello di Amboise nel 1517, ossia quattro anni dopo che Leonardo se la portò in Francia per completarla. Ma sebbene fosse stata commissionata dal Gherardini, marito di monna Lisa, già nel 1503, Leonardo è propenso a “regalarla” per una somma maggiore offerta dal sovrano Francesco I il quale gli aveva donato in concessione il castello di Amboise in cui soggiornerà sino alla sua morte del 1519.
Il quadro ha alimentato però negli anni i motivi di vendetta patriottica, sino a costruire la leggenda della refurtiva napoleonica, (realmente avvenuta a fine Settecento, ma non per la Gioconda che già si trovava in Francia). La questione su cui sembra ancora irrisolta non giuridicamente, ma moralmente lo stato della Gioconda, è la stessa che ha in questi giorni promosso l’idea nell’opinione pubblica di “liberare” il dipinto dalle catene di uno “Straniero” che ha accorpato la più grande collezione d’arte al mondo. Dunque, esiste ancora una crociata tassiana alla Gioconda.
La verità cui dovrebbe giungere la collettività garante del nostro patrimonio è però un’altra, e resta inarrivabile finché non si concepisce una diversa storia dell’arte. L’Arte è patrimonio pubblico dell’umanità grazie a un ente che può meglio garantirne il patrocinio tutelare nell’arco del tempo, ma soltanto se essa continua a trasmettersi nelle coscienze dei cittadini come patronimio del nostro diritto internazionale, ossia patronimio della civiltà.
