“Questa storia partecipa al Blogger Contest 2020”
“Bambini, allora prendete la giacca che si parte, siete andati in bagno?”. Ecco le parole che ancora sento nelle orecchie quando devo partire.
Sono passati molti anni dai miei primi viaggi perché, grazie ai miei genitori, ho iniziato molto presto.
Le mete erano scelte dai miei, non quelle classiche imposte dai volantini o dalle agenzie di viaggio, non quelle che servono nei salotti per essere alla moda, ma quelle belle che ti restano nel cuore.
Fin da piccola ho viaggiato. Ho viaggiato in camper, in macchina, in moto, in barca a vela, in treno, in traghetto. Tanti mezzi, tutti con emozioni diverse. Tutti in età differenti e ognuno di essi ha arricchito il mio bagaglio di ricordi.
Ma, ad oggi, se mi chiedessero di raccontarne uno, sceglierei quelli fatti in camper.
Era un’altra epoca, erano gli anni ’80-’90. Ero una bambina di appena 3 anni quando montai da sola sul mio primo letto a castello di quel camper, lungo 8 metri, che mi sembrava infinito. Io dormivo nel letto sotto, mio fratello, in quanto maggiore e quindi meno a rischio caduta, dormiva sopra. Siamo andati ovunque con quel camper: Turchia, Grecia, Spagna, Francia, Corsica, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Austria, Svizzera, Olanda, Alpi, Dolomiti, mare, montagna, collina e laghi. Ovunque. Viaggiare in camper è una concentrazione di sensazioni fortissime che sono ancora vive in me.
Una volta alle elementari mi fecero fare un tema “Dove hai la casa delle vacanze?” e io risposi “Io ho la casa in tutto il mondo”. Questa era la libertà che mi trasmetteva viaggiare in camper. Erano tempi diversi e adesso, se penso a certi luoghi dove siamo stati, mi domando come fosse possibile e quanto meno rischioso fosse viaggiare.
Si partiva, alla scoperta del mondo, senza sapere neanche bene cosa avremmo visitato perché lungo il percorso sbucava sempre qualcosa di inaspettato che meritava fermarsi a vedere.
Mio papà alla guida e mia mamma, detta da noi “il piccione viaggiatore”, teneva le cartine e seguiva le strade confrontando parallelamente le Touring Club e quelle acquistate diligentemente prima di partire. All’epoca non c’era Google Maps, non c’era internet, non c’erano i navigatori di serie nel cruscotto: il viaggio era fatto solo di cartelli e mappe cartacee. Spiegazzate, macchiate, vissute, scarabocchiate, con gli angoli consumati dove si doveva piegare il foglio e quindi a volte anche bucate, ma era questo il loro fascino.
Il viaggio era emozionante anche senza sapere dove stavamo andando. Io da piccola, senza accorgermene, arrivavo a camminare nella valle dei templi ad Atene, a correre in Turchia, a visitare castelli della Loira in Francia, a camminare per le strade di Amsterdam e passare dietro la libreria di Anna Frank, a fare il bagno a Barcellona e tutto con la curiosità e la semplicità che solo gli occhi di un bambino possono avere. Avevamo il camper che, lentamente, data la potenza del motore e del carico di peso con la tecnologia dell’epoca, ci portava dove volevamo.
Chiudere la porta a Firenze e riaprirla per scendere a prendere una quiche lorraine in Costa Azzurra. Chiudere la porta a Firenze e riaprirla in Olanda lungo il canale con le papere. Chiudere la porta a Firenze e riaprirla immersi nella neve al Passo dello Stelvio sulle Alpi.
Era questa la magia.
Durante il viaggio, mentre i miei genitori chiacchieravano di libri e cose da visitare, io e mio fratello giocavamo nella parte dietro. La dinette si trasformava in un tavolo da casinò, carte, Dama, Backgammon, Monopoli (rigorosamente calamitato per evitare di perdere le pedine in curva) e tutti i giochi da tavolo per il viaggio che prontamente a Natale mia nonna ci regalava e venivano messi direttamente nello sportello dei giochi per la prossima vacanza. Non mancava qualche lotta, qualche dispetto, qualche dormita fino a quando prendevamo la postazione di vedetta e giocavamo con i miei.
Abbiamo sempre chiacchierato molto durante i viaggi, sia in camper sia in macchina, delle volte parlavamo di cosa stavamo andando a vedere, cosa avremmo visitato, ci confrontavamo sulle emozioni di cosa avevamo visto e anche di cosa ci sarebbe piaciuto vedere. Durante i viaggi non veniva mai fatta la domanda annoiata “ma quando si arriva?” perché il viaggio non era noioso, lo spostamento era già l’anima stessa del viaggio.
I pranzi improvvisati, fare la spesa e riempire il gavone, cercare le aree attrezzate per passare la notte, mettere la sveglia per mettersi in fila per visitare castelli e musei, imbacuccarsi per salire in ovovia ai rifugi, caricarsi lo zaino di libri, frutta, acqua e macchina fotografica (con relativo rullino aggiuntivo) per le escursioni nei boschi.
Prima viaggiare aveva un sapore diverso, né peggiore né migliore: oggi abbiamo qualche agevolazione in più, però, forse, si sta di più a capo chino sugli smartphone senza stare con naso all’insù per riempirsi gli occhi di meraviglia.
Negli anni ’90 per arrivare ad un rifugio c’erano i cartelli dei sentieri nei boschi, non il navigatore satellitare con la voce metallica che ti diceva “svoltare a destra fra 400 mt”.
Per entrare in un museo non c’era la App “saltafila”, c’erano le gambe con le quali ti mettevi in coda e aspettavi ore per visitare qualcosa, sotto il sole e sotto la pioggia. Non nascondo che, quando passeggio per Firenze in centro e vedo le file chilometriche sotto il Duomo per salire sul Cupolone, sorrido perché rivivo la realtà del viaggio senza le comodità della tecnologia.
Quando si viaggiava da piccoli con la mia famiglia le regole erano poche e chiare: spazio piccolo, quindi tutti devono essere ordinati; chi non va in bagno prima di uscire se la tiene fino a quando è possibile; ognuno si porta dietro il suo zaino con dentro il K-Way, l’ombrello, il cappellino, eventuale gioco o pupazzo, borraccia, fazzoletti.
Il mini kit necessario per non riempire con ammennicoli vari le tasche dei genitori, che poi alla fine erano piene comunque di cose nostre. Il destino di un genitore, avere lo zaino piene di cose necessarie per ogni eventuale necessità del figlio.
I nostri viaggi erano alla scoperta di luoghi e sapori, assaggiavamo tutto, visitavamo tutto e, se lungo il percorso sbucava un castello o una chiesetta o un momento, c’era la sosta obbligata.
Tra le cose che ancora ricordo perfettamente ci sono l’ordine preciso di come mia mamma sistemava le nostre cose, perché lo spazio era poco e tutto doveva entrare, la precisione di come aveva scelto gli spazi per tenere scarpe e cappotti, la scelta accurata di ogni ripiano e di ogni mensola dedicata a qualcosa di specifico, postazione scelta al primo viaggio e rimasta quella per sempre.
Lo sportello dei giochi, dei vestiti, della dispensa, della biancheria, tutto appositamente piegato e ordinato e tutti dovevamo rispettare quell’ordine. La disciplina degli spazi piccoli è una scuola che molte persone dovrebbero fare.
I viaggi erano lunghi, a volte di giornate intere ma essendo in camper e avendo la possibilità di vivere gli spazi non avevamo necessità di fare troppe soste, avevamo tutto il necessario a portata di mano.
Col passare degli anni e dei viaggi noi crescemmo e il camper cambiò: diciamo che il cambiamento fu inversamente proporzionale, noi più grandi e il camper più piccolo ma oramai eravamo dei draghi dell’assetto. Piccoli dettagli furono cambiati, le cose furono riorganizzate.
Avevamo più libri e quaderni essendo a scuola, cambiò l’ingombro dei giochi, meno pupazzi e più intrattenimento di giochi da tavolo. Diventammo accaniti giocatori di canasta, grandi lettori di libri e ascoltatori di musica con i primi Walkman o lettori cd portatili. Il camper si riempì di pile stilo, che non bastavano mai. Gli argomenti con i nostri genitori si facevano più complessi, più dibattiti su testi, musei, libri, non c’era più la cassetta con la storia de “Il libro della giungla” ma si cominciava ad arricchire la nostra cultura musicale. Viaggiavamo però ancora con le cartine e le famose guide grigie del Touring Club dalle quali mio babbo, dentro chiese e musei, ci leggeva il trafiletto descrittivo e ci dava le informazioni base per capire e comprendere la storia del luogo dove ti trovavi.
La cattedrale di Leòn fatta tutta di specchi, la chiesa di Le Corbusier, le viuzze medievali di Carcassonne, la spiaggia profondissima di Biarritz, le case delle fate in Turchia.
L’odore della tappezzeria al sole, i profumi dei manicaretti di mia mamma che da una microscopica cucina riusciva a inventarsi pranzi e cene memorabili. Il cigolio del cassetto delle posate, il vapore della caffettiera che saliva fino al letto a castello e mi faceva da sveglia. Il ticchettio della stufa a gas di quando eravamo sulla neve. Indelebili nella mia memoria.
Io ero molto piccola, avrò avuto si e no 4 anni, quando imbacuccata come un eschimese misi piede nella profonda e bianca neve a San Martino di Castrozza.
Andammo con i miei cugini, ricordo ancora la tuta da sci intera, rossa con pallini blu, sembravo una coccinella. Piccoli Moon Boot blu ai piedi, muffole alle mani e via nella “panna montata” come la chiamavo io. L’odore della neve e il silenzio che avvolge le montagne innevate è qualcosa che ti rimane dentro, inconfondibile rigida maestosità e travolgente senso di morbidezza allo stesso tempo.
La montagna l’ho vissuta soprattutto d’estate, non essendo io una sciatrice. Sono stata a fare percorsi, passeggiate ed escursioni a San Candido, Dobbiaco, Brunico, Tondi del Faloria, Cortina d’Ampezzo, rifugi e camminate nella natura, ma per quanto la bellezza dei colori della montagna d’estate richieda un capitolo a parte, il bianco a contrasto con il cielo turchino e l’odore di quella neve è nel mio cuore. Lo scricchiolio degli stivali quando affondi il piede nella neve, l’odore inconfondibile delle giacche da sci, la camminata goffa e robotica con gli scarponi ai rifugi.
Viaggiare negli anni ti porta a notare quanto velocemente siano cambiate le cose, quanto la tecnologia sia diventata per noi indispensabile, o per lo meno quanto ci hanno portato a crederlo.
Quando cominciai a viaggiare, si parla di fine anni 80 primi anni 90, per vedere c’erano solo gli occhi, niente cellulari, niente selfie, nessuna storia su Instagram, nessuna diretta Facebook, nessun TikTok, solo occhi, memoria fotografica, memoria olfattiva ed è grazie a questi che ora sono qui, a distanza di ben 33 anni, a descrivere questa esperienza come se fossi tornata dal viaggio ieri.