Eccoci ritornati anche con Bearity Fair dopo il periodo di pausa per le vacanze estive. Ho solo un pensiero che mi ronza in testa e mi tormenta: lo Tsunami mediatico da cui è stata sommersa Asia Argento.
Si sono prese carico della vicenda le più grandi testate giornalistiche, qui e oltreoceano, e il tribunale da campeggio ha trovato sedi un po’ ovunque. Allestiti i falò, bruciamo le effigi di chi ha avuto una sventura che: “Oh cielo, se l’è andata a cercare di proposito!”.
Ma cosa è successo veramente? Di chi è la colpa? Chi cerca di fregare chi?
Queste sono alcune delle domande a cui vorremmo risposta dopo le dichiarazioni rilasciate da Jimmy Bennett, in cui accusa la nota attrice e regista di aver abusato di lui quando era ancora minorenne.
Oggi basta una denuncia, un sospetto sussurrato e ci ritroviamo con schieramenti di eserciti digitali pronti a dare battaglia per difendere o attaccare, a seconda di ciò che è reputato sia più o meno vicino alla realtà. Qualcuno direbbe che non c’è nulla di strano nel volersi fare un’opinione riguardo ad un evento. Ma se questo nostro indagare stravolgesse in peggio la vita di una o di tutte le persone coinvolte? Se gli strumenti di cui ci dotiamo non fossero quelli congrui a far luce, ma gettassero più ombre di quelle preesistenti?
Siamo consci che emotività, simpatie e antipatie, e in special modo la frettolosità, siano arnesi pericolosi in quelle ditina ansiose di emettere un giudizio?
Non demonizzo né santifico la curiosità e il cercare di appagarla: necessitiamo però di mettere un punto proprio all’esasperazione di quell’appagamento che ci distoglie dal valutare quando sia giunto il momento di farsi da parte per lasciare analizzare a chi ne ha competenza e, simultaneamente, prendendo coscienza della responsabilità morale cui siamo chiamati nell’istante in cui maneggiamo la vita altrui.
È come se si fosse atrofizzata la capacità di proiettare sugli altri quel che vorremmo o non vorremmo assolutamente fosse fatto a noi, come se non ci riguardasse la sofferenza, come se la giustizia viaggiasse sempre su un unico binario.
Qualcuno, anche tra le femministe più accanite, ha cercato di sconsacrare il lavoro fatto con il movimento #meetoo (Caso Wenstein), di cui anche la Argento è stata portavoce, facendo intendere che qualora si intraprendesse lo stesso atteggiamento di violenza di cui si è stati vittime, il presupposto di violenza stessa verrebbe a decadere, alludendo al fatto che debba essere condannato il portatore e non la violenza, sempre che questa poi venga dimostrata. Farne una questione personale diventa questo, cioè investire una persona di connotati fissi e immutabili, rendendola oggetto e attributo ad uso e consumo della sua umanità.
Come dire che sono vittima se uno ubriaco mi picchia, e tempo dopo non lo sono più se alterato dall’alcol divento ingiurioso e fastidioso verso qualcun altro. In entrambi i casi è la prepotenza e la brutalità che devono essere punite, non l’emblema con cui abbiamo rivestito i singoli.
Anche riguardo al caso Weinstein potremmo dire che c’è stato uno sdoppiamento di trattamento nei confronti di questa donna. Immediata è giunta la colpevolizzazione, le “sentenze popolari”, i commenti per non aver denunciato prima, per essergli rimasta accanto, per essere comparsa sorridente nelle foto.
La coercizione pare non venga mai presa in considerazione, sembriamo tutti così risolti e lucidi dall’altra parte del web.
Poiché anche a Bennett vengono rigirate le stesse insinuazioni, con in più la derisione di matrice machista che biasima l’uomo che non solo rifiuta l’occasione succulenta di far sesso con una donna, ma si dimostra anche debole tanto da subirne l’aggressione, vorrei che leggeste la mia non come strenua difesa di questo o quell’altro personaggio, ma un voler far risaltare un mondo malato che poggia su colpe e sanzioni in maniera sbrigativa, per poi continuare a vivere le proprie vite ignari delle ripercussioni che mettiamo in moto.
Oggi Asia rischia molto, proprio perché abbiamo un impellente necessità di sbattere quel martelletto sullo scranno: “L’imputata è colpevole! …ora vado a girare il sugo che mio marito rientra da calcetto”. È certo che non parteciperà a X-Factor, rischia l’isolamento lavorativo quanto quello sociale. Qualcuno esulta! Bisogna farle scontare l’essere stata privilegiata, l’essere nata figlia del maestro dell’horror, aver vissuto nel’agiatezza una vita “sregolata”, “ immorale”, aver fatto scelte di vita sbagliate, essersi circondata da persone sbagliate.
Ritornano in gioco i nostri sentimenti, la nostra emotività. Nulla che ci faccia dubitare della nostra perfettività, ci consoliamo piuttosto del nostro non essere stati così imperfetti da cadere negli stessi errori. Una consolazione che ci legittima a puntare costantemente il dito contro l’imputato alla sbarra, e che tuttavia resta insufficiente a giustificare l’innata indole al branco che si autoprotegge dalla fallacità delle debolezze altrui