ALADDIN è il live action targato Disney dell’omonimo film d’animazione del 1992. E a dispetto dei tanti pregiudizi che avevo nell’accostarmi a questo titolo, sono uscito dalla sala che ero tornato bambino. Divertente, strabiliante, emozionante.
Aladdin è un giovane ragazzo che vive di facili espedienti ad Agrabah. Durante un furtarello si imbatte in una ragazza che dice di essere l’ancella della principessa Jasmine.
In realtà ella è davvero la figlia del sultano, scappata dal palazzo perché desiderosa di vivere e vedere la città e la vita delle strade.
Quando Aladdin scoprirà la verità sarà già innamorato della ragazza, cosciente del fatto che non potrà mai averla.
Fra il loro sogno si mettono in mezzo il vile e ambizioso visir Jafar, eterno secondo che desidera prendere il posto del sultano, e una lampada magica dove dorme un genio.
Dopo il grande successo ottenuto dai film su “SHERLOCK HOLMES” (2009 – 2011) e una discreta rivisitazione in chiave pop della leggenda di “KING ARTHUR” (2017), Guy Ritchie viene chiamato a dirigere il live action di uno dei cartoni più amati in casa Disney.
L’unione tra il rozzo e verboso Ritchie e la casa di Topolino poteva far storcere il naso.
Dopotutto egli, almeno fino ai primi anni 2000, era considerato dalla critica figlio del cinema tarantiniano in salsa british e si era imposto all’attenzione dei più con titoli come “LOCK & STOCK” (1995) e “SNATCH” (2000). Questo prima che venisse oscurato dall’ingombrante presenza della signora Ciccone che lo prese in marito e da cui sono nati due bambini.
Eppure il suo approccio un tantino rozzo, ma politico, edulcorato e messo al servizio della grande casa dei sogni, ha qui lo stesso potere del Genio.
È riuscito a esaudire i miei tre desideri: vedere un bel film, non farmi rimpiangere di aver pagato un biglietto ed essere tornato bambino.
L’operazione si può dire riuscita su più livelli.
Il regista segue fedelmente l’opera d’animazione e riesce a citare non poche scene iconiche in maniera sorprendente (il numero di presentazione del genio e il trionfale ingresso ad Agrabah, solo per citarne alcune). In esso riesce a inserirci anche Bollywood con splendide e movimentate coreografie e infilarci qualche richiamo alla politica moderna ( “ruba una mela e sei un ladro, ruba un regno e sei uno statista“) e alla condizione delle donne e al loro diritto di parola nei paesi arabi.
Ma perché il film riuscisse davvero, uno degli elementi più importanti era certamente trovare un degno sostituto che non ci facesse rimpiangere i tempi comici di Robin Williams (fu lui a prestare movenze e voce alla figura animata del 1992).
Will Smith, ripescando anche dal suo personale repertorio (Willy Il Principe di Bel-Air) impersona il genio con passione e credibilità e divertimento.
Non sono da meno poi gli altri attori chiamati a impersonare gli altri personaggi chiave della storia: nel cast multietnico ecco spiccare i volti dell’atletico attore canadese di origini egiziane Mena Massoud (Aladdin) e quello della bella anglo-indiana Naomi Scott (Jasmine).
Ed è alla figura di Jasmine che viene dato maggiore rilievo e su cui viene scritta una nuova canzone.
“Speachless” (nella versione italiana “La mia voce“) è un brano potente in pieno clima “Time’s Up”, ma poco attinente al tessuto storico-sociale del paese in cui sono narrati gli eventi.
Ma il brano funziona e non ne rallenta l’azione.
Un piccolo errore che però si può perdonare giacché questo “ALADDIN” ci prende per mano, ci porta a guardare il mondo da sopra un tappeto volante e ci fa dimenticare per due ore tutte le fatiche e i doveri della quotidianità e ci porta a riabbracciare i nostri sogni più belli.