AMERICAN SON è un film distribuito sulla piattaforma di Netflix. Uno specchio amaro delle contraddizioni della società moderna in cui i pregiudizi tra culture e origini etniche sono difficili da debellare e come questi possano invalidare o annullare l’equità dei diritti umani.
Kendra, donna di colore, è nella sala di attesa di un distretto di polizia di Miami. Suo figlio Jamal è sparito da 9 ore e scopre che la sua auto è stata segnalata dalla polizia, ma non si sa per quali ragioni.
Il giovane poliziotto che dovrebbe assisterla pare non esserne in grado, rimane evasivo e trincerato dietro il protocollo da seguire.
Arriva sul posto anche l’ex marito di Kendra, Connor, agente del FBI. L’atteggiamento e la disponibilità del giovane poliziotto cambiano e iniziano a trapelare notizie preoccupanti, ma sempre molto vaghe, in attesa che arrivi un altro poliziotto che si occupa del caso del ragazzo.
Il tempo passa e la visione di un video sul cellulare di Connor rendono sempre più concrete le paure di Kendra.
La situazione è destinata a precipitare.
Tratto dall’omonima piece teatrale, AMERICAN SON è diretto da Kenny Leon che ricalca fedelmente lo script originale, senza apportare alcuna modifica rilevante alla sceneggiatura. Il suo lavoro di trasposizione per il grande schermo manca di una reale impronta registica e di una certa dinamicità giacché l’azione avviene interamente in una stanza, frammentata da qualche breve e sporadico flashback di Kendra.
Proprio per questo si avverte fortemente l’origine teatrale della pellicola.
L’azione, la tensione narrativa, avviene tutta tramite dialoghi serrati, scontri verbali, riflessioni. In tal senso la perfomance recitativa di Kerry Washington è superlativa. È lei a smuovere le acque torbide di una storia di ingiustizia dai connotati via via sempre più inquietanti; è lei a trasmetterci tutta l’ansia di una madre che teme per il trattamento che è stato riservato a suo figlio nel caso sia stato fermato da una pattuglia della polizia alle 2 del mattino.
Il destino dell’appena diciottenne Jamal si fa sempre più preoccupante nel corso del film e noi temiamo assieme ai suoi genitori che gli sia capitato il peggio.
Merito di AMERICAN SON è quello di porre una lente di ingrandimento sulle dinamiche razziali della società moderna, guardando al problema da 4 punti di vista differenti, evidenziando come certi pregiudizi siano ancora difficili da sradicare dal tessuto sociale del suolo americano.
La figura di Jamal, la sua fisicità, la sua indole, la possiamo solo immaginare e costruire tramite le parole della madre Kendra, ma questa proiezione sembra essere contaminata dalle domande insistenti del giovane poliziotto (Jeremy Jordan) che portano lo spettatore stesso a porsi dei dubbi sulla condotta del ragazzo.
“Ha tatuaggi sul volto? Denti d’oro?” Chiede il poliziotto, guardando al giovane necessariamente come a un ragazzo del ghetto, forse membro di una gang, forse già segnalato dalla polizia per qualche furtarello.
Ma ancora più preoccupante è la percezione che ha lo stesso padre di Jamal (un ingessato e non sempre credibile Steven Pasquale) che guarda con fastidio alla presa di coscienza di una propria identità da parte del suo ragazzo. Egli non accetta che il figlio che frequenta una buona scuola possa deviare dal suo futuro già prestabilito; non accetta che egli porti le treccine o che vesta trasandato; non comprende il disagio che il figlio possa provare nell’essere l’unico ragazzo di colore nella sua scuola.
Ancora più teso e straniante è poi il confronto che avviene tra Kendra e il poliziotto anziano di colore (un solido Eugene Lee).
Il poliziotto traccia un quadro ambiguo secondo cui certi atteggiamenti possano indurre ad atti punitivi, giustificati.
“Suo figlio se l’è cercata!” Dirà ad un certo punto davanti all’incredulità della donna. Questa è una di quelle frasi che fendono l’aria come punteruoli, che ci sorprendono puntualmente per la bruttezza con cui vengono scagliate sulla nostra persona, che rimbalzano il peso della colpa dal carnefice sulle vittime degli abusi.
AMERICAN SON è materiale incendiario che nei suoi limiti di regia e di sceneggiatura riesce a sollevare non pochi quesiti sul senso di giustizia, sul senso di appartenenza, sui fantasmi di un razzismo che serpeggia ancora oggi nella grande nazione delle contraddizioni, su di un odio che ha messo radici profonde e su di una diffidenza tra culture ed esseri umani che non riesce a trovare un dialogo riparatore.
Il sogno americano non appartiene a tutti, è un privilegio ed è un diritto che – ancora oggi – per alcuni non è permesso neppure di sognare.
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