Il mio giudizio per questo documentario non può essere totalmente imparziale tante sono le emozioni e le lacrime versate nella sua durata.
Asif Kapadia – di cui ricordiamo titoli come THE WARRIOR del 2001 e il documentario SENNA del 2010 – raccoglie tutto il materiale possibile, anche quello più privato, per costruire un docu-film che, a conti fatti, non ha una grande valenza come lavoro finale, non fosse che racconta e ci svela tutta la tragica bellezza di uno degli animi più complessi e stupendi del panorama musicale degli ultimi 20 anni.
Amy Winehouse.
Basta il suo nome e il ricordo della sua voce a riempire il cuore e la mente di infinite contraddizioni.
Amy la cantante jazz.
Amy l’alcolizzata.
Amy la star.
Amy e la bulimia.
Amy e Blake.
Amy e le droghe.
Amy e la fama.
Amy e la musica.
Amy e la sua vita contrassegnata da eventi comuni a tanti ( la separazione dei genitori. Un padre assente. Una madre debole. ), ma che l’hanno resa forse diversa, forse già condannata: a soli 13 anni già prendeva antidepressivi e fin da giovanissima ha disturbi alimentari.
Quel dono unico e prezioso – lei lo sapeva – era già tutto. Essere capace e libera di poter cantare.
Come molti animi tormentati, la sua prima lotta interiore era proprio qui: la voglia di comunicare al mondo, ma il suo disinteresse a diventare famosa.
Nel tempo la fama e il successo sono stati i mostri che maggiormente hanno inciso laddove era già un inferno.
I primi sciacalli e gli avvoltoi, che si sono cibati del corpo minuto di questa ragazza, sono stati proprio coloro che maggiormente avrebbero dovuto difenderla: il suo compagno Blake e poi suo padre.
Poi la stampa e lo star system e la casa di produzione e i paparazzi hanno fatto scempio di quella poca luce rimasta negli occhi di Amy; hanno messo sù un circo degli orrori e hanno girato la diretta di una morte annunciata.
A 27 anni Amy vola via per un arresto cardiaco. Nel sangue il livello di alcol è ai massimi livelli.
Poco tempo prima Amy aveva inciso un pezzo con uno dei suoi più grandi idoli, Tony Bennet, che spende le parole più belle per lei.
Il regista londinese di origini indiane ha il merito di non scavare nel torbido e di non voler trovare necessariamente dei colpevoli (è lo stesso Blake che si scava la fossa da solo nelle interviste), ma si concentra su quegli occhi grandi, sulle parole delle sue canzoni che, più di una foto o di un video, ci riportano tutta la verità su di una stella solitaria come Amy Winehouse.
Lei era una luce, ma non abbastanza forte da brillare nella totale oscurità.
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