Fare un film significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa prolungare i giochi dell’infanzia.
François Truffaut
Il mondo grazie al Festival di Cannes si apprestava ad accogliere sessant’ anni fa uno dei capolavori della storia del cinema, I quattrocento colpi, primo film di François Truffaut e opera capostipite del movimento della Nouvelle Vague.
Giunto alla sua prima regia appena ventisettenne, Truffaut ebbe una decennale carriera da critico cinematografico. Introdotto negli ambienti giusti da André Bazin, fondatore della più prestigiosa rivista di cinema francese Les cahiers du cinéma, in cui confluirono i principali esponenti della Nouvelle Vague come Jean-Luc Godard, Claude Chabrol, Jacques Rivette e Éric Rohmer, fu proprio un articolo di Truffaut dal titolo Su una certa tendenza del cinema francese del 1954 a teorizzare quel cinema nuovo che di lì a poco avrebbe portato alla rottura definiva col linguaggio cinematografico classico.
I quattrocento colpi, una traduzione sbagliata dal titolo originale francese Le quatre cents coups, il cui equivalente italiano più vicino è “fare il diavolo in quattro”, da un modo di dire francese in riferimento all’irrequietezza del protagonista riuscì al Festival di Cannes del 1959 ad aggiudicarsi solo il premio alla regia (la Palma d’oro andò ad Orfeo Negro di Marcel Camus, un’opera oggi quasi del tutto dimenticata) e divenne da subito non solo un grande successo di pubblico e di critica ma un vero e proprio manifesto generazionale, sia dal punto di vista sociale che artistico.
Antoine Doinel: la biografia cinematografica di Truffaut
È la storia di Antoine Doinel, un irrequieto adolescente parigino trascurato dalla madre e dal compagno di lei. È estremamente sensibile ed intelligente ma non si sente compreso dal mondo in cui vive al punto da ricorrere a malefatte più o meno gravi per difendersi da quell’universo di adulti che percepisce ostile, come ad esempio l’invenzione della morte della madre per giustificare un’assenza da scuola. Fuggito dopo essere stato scoperto si riconcilia con i suoi genitori, i quali iniziano a ricoprirlo di attenzioni. Tuttavia, a causa di un furto, Antoine viene affidato ad un riformatorio ma durante una partita a pallone fugge di nuovo trovandosi davanti a quel mare che aveva tanto sognato di vedere. E’ ormai pronto ad affrontare la vita.
Spesso è stato detto come Antoine Doinel sia in realtà un alter ego di François Truffaut, poiché molte delle sue esperienze biografiche sono state riversate nel suo protagonista. In effetti non è proprio così. Ciò che ha costruito Truffaut nell’arco di vent’anni di attività cinematografica, passato alla storia col nome di Ciclo di Doinel (I quattrocento colpi – 1959, Antoine e Colette – 1962, Baci rubati – 1968, Domicile conjugal – 1970, L’amore fugge – 1979), è una vera è propria biografia cinematografica di un uomo comune circondato dagli stessi ambienti e dagli stessi amici di sempre, ma in epoche diverse e quindi in diverse fasi della sua maturità, sperimentando l’originalità narrativa del racconto “spezzato” e ripreso.
Ad interpretare Doinel fu Jean Pierre Léaud, attore simbolo del cinema di Truffaut, interprete non sono del Ciclo di Doinel, ma anche del meraviglioso Le due inglesi nel 1971 e del film Premio Oscar Effetto notte nel 1973, a cui il regista lasciò molta libertà d’espressione in modo da far acquisire al personaggio la naturalezza e la sfrontatezza di cui aveva bisogno.
Il tema centrale del film da come si evince già nei primi minuti è il rapporto controverso di un ragazzo, che l’autore non dipinge mai né come un caso limite né come una vittima, ma piuttosto come un normale adolescente un po’ ribelle col suo mondo circostante, con i suoi genitori in particolare. La vita di Antoine all’interno delle mura domestiche è resa mirabilmente nel suo primo interfacciarsi con la famiglia, trattato quasi alla stregua di un cameriere da parte di sua madre senza che lei si interessi minimamente alla sua vita. Il fatto che non possieda né una camera da letto e né delle lenzuola rispecchia l’attenzione che i suoi familiari nutrono nei suoi confronti.
Le istituzioni pubbliche, come la scuola, sono dedite unicamente alla formazione del cittadino medio francese e poco importa se un ragazzo difficile come Antoine in realtà sia estremamente intelligente. In mezzo a tutta questa chiusura non gli resta che rifugiarsi nella lettura di Balzac e nelle ragazzate compiute col suo migliore amico René.
In quest’opera Truffaut traccia un ritratto sconfortante della società francese in ripresa a quattordici anni dalla fine della guerra, in cui gli adulti sembrano consacrati unicamente ai loro stessi bisogni e il dialogo tra giovani ed istituzioni sembra pressoché impossibile (incomunicabilità che di lì a poco sarebbe sfociata nel Sessantotto parigino), apparendo come severe ed intolleranti anche laddove non ci sarebbe bisogno. Non a caso Antoine non si apre mai con gli adulti perché crede di trovare nell’amicizia con René tutto ciò di cui ha bisogno in quel momento.
Un cinema nuovo di derivazione neorealista
I quattrocento colpi è di una bellezza visiva innegabile, a partire dai titoli di testa sui tetti parigini. Già dai primi minuti si avverte la grande lezione del cinema neorealista italiano, in particolare di Roberto Rossellini di cui Truffaut era grande estimatore, riprendendo la poetica del pedinamento, ovvero quello sguardo oggettivo sulla realtà teorizzato da Cesare Zavattini che offre la possibilità di cogliere con la macchina da presa la vera realtà quotidiana e gli elementi più genuini del comportamento umano in particolari condizioni ambientali e sociali.
Come Rossellini ha pedinato i bambini nell’immediato dopoguerra rivelandone le loro reali condizioni in film come Germania anno zero del 1948 e Sciuscià del 1946, così Truffaut grazie al suo sguardo oggettivo riesce a cogliere la naturalezza degli sguardi di Doinel fino a farci percepire le sue reali emozioni durante la sequenza finale della fuga verso il mare. Per capire l’oggettività registica de I quattrocento colpi bisogna far riferimento ad una scena in particolare, ovvero quella dell’interrogatorio di Antoine.
Nella suddetta scena Truffaut ricorse all’improvvisazione; Jean Pierre Léaud non era preparato sulle domande che gli sarebbero state poste innescando così un forte senso di incertezza, spontaneità e umorismo,
anche di fronte a domande piuttosto brutali e poco consone ad un dodicenne. Lo sfondo bianco e nero risalta la figura di Antoine durante la sua confessione e la voce fuori campo della donna diventa il simbolo del mondo ostile degli adulti.
Oggi I quattrocento colpi continua ad essere uno degli esordi più clamorosi della storia del cinema. Esso col tempo ha assunto sempre di più valenza simbolica di François Truffaut e dei registi della Nouvelle Vague che si ribellano alle regole del cinema classico, il cinema “adulto”. Per questo motivo esso è e continua ad essere un film profondamente generazionale a 360 gradi non solo per i ragazzi ma per tutti coloro che, anche da grandi, non hanno mai dimenticato cosa significa essere dei giovani ribelli come Antoine Doinel.