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L’UOMO CHE VENDETTE LA SUA PELLE – quando l’arte si fa politica (recensione)

- 19/10/2021
L'uomo che vendette la sua pelle (2021)


L’UOMO CHE VENDETTE LA SUA PELLE è un film che riflette sul senso dell’arte, sulla mercificazione del corpo, sulle problematiche della clandestinità, ma anche sul senso altruistico e sulla tendenza allo sfruttamento delle disgrazie altrui. Forse troppa carne al fuoco per un film che resta sulla pelle, ferendola non abbastanza in profondità…

Trama _ Raqqa, Siria 2011. Sam Ali è un uomo passionale e romantico, innamorato della bella ma titubante Abeer. In un impeto di amore Sam griderà il suo amore per la su di un treno. Ma le sue parole passeranno per propaganda rivoluzionaria che lo condurranno davanti alle autorità. Sam fugge quindi in Libano, mentre Abeer partirà in Belgio, sposata un uomo diplomatico. Passano gli anni e Sam troverà un escamotage nel riuscire a ricongiungesi con la sua donna: offrirà il suo corpo, la sua schiena, perché diventi la tela di un noto artista e quindi egli stesso diventi un’opera d’arte.

Negli ultimi anni non sono stati pochi gli esempi di cinema che riflettono sul senso dell’arte e il suo impatto nella società o del suo riflesso. Basti pensare al bellissimo THE SQUARE (2017) di Ruben Ostul che rifletteva sullo squilibrio sociale e culturale della nostra società moderna; o al feroce e sublime ANIMALI NOTTURNI (2016) di Tom Ford che guardava al potere catartico dell’arte e al suo uso come arma di denuncia.

Il film è stato candidato agli Oscar 2021 per il Miglior Film Internazionale

L’UOMO CHE VENDETTE LA SUA PELLE della regista tunisina Kaouther Ben Ania è un film che vuole far riflettere, ma nella sua doppia anima (dramma amoroso da una parte e satira sul mondo dell’arte dall’altra) non riesce a trovare una propria solidità, perdendo di intensità sia narrativa che registica.

Se il film funziona è perché di fatto le tematiche suggerite (ma mai affrontate concretamente o con la necessaria profondità) stimolano un dibattito o una critica verso una società – quella moderna – in cui la dignità di un uomo è costantemente messa in discussione, sia dalle proprie scelte (opinabili) sia da un sistema giuridico e sociale che pare non saperci tutelare.

La schiena (e la fisicità) del protagonista è certamente una scommessa vincente: il bravo Yahya Mahayni riesce a portare sulle spalle (e sulla pelle) tutti i toni, a volte anche contrastanti, del film. Passa dall’essere fragile a animale difficile da domare, divertente e struggente in maniera onesta e sincera davanti alla telecamera.

Il film ha partecipato nella sezione Orizzonti alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 2020 aggiudicandosi il premio come Miglior Film e Miglior attore.

Meno incisivi sono invece tutti i personaggi che ruotano attorno a questo corpo/opera d’arte. Dall’artista che ama perdersi in riflessioni sul senso marcio di una società che riesce a muovere ogni cosa, ma imprigiona o limita il divenire degli esseri umani (un poco magnetico e credibile Koen De Bouw); alla presenza di una Monica Bellucci sottotono che resta un personaggio funzionale (quanto basta) al racconto e poco più.

Si guarda alla crisi dei rifugiati, alla mercificazione del corpo, ai problemi di paesi come la Siria costantemente minacciata da guerre e massacri, ma L’UOMO CHE VENDETTE LA SUA PELLE riesce di rado a toccare nervi scoperti, limitandosi (come buona parte dell’arte che va criticando) a sedurre e scioccare, senza però arrivare al nocciolo della questione.

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Ossessionato dal trovare delle costanti nelle incostanze degli intenti di noi esseri umani, quando non mi trovo a contemplare le stelle, mi piace perdermi dentro a un film o a una canzone.

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