MANK è arrivato nel dicembre 2020 sulla piattaforma di Netflix. Un’opera stratificata e di non facile lettura che merita di essere vissuta dall’inizio alla fine. Un’opera forse tra le più importanti mai apparsa a portata di smartphone.
California, 1940. Herman J. Mankiewicz, sceneggiatore con problemi di alcol, si isola con due assistenti da qualche parte nel deserto del Mojave per lavorare su uno script commissionatogli da Orson Welles. Mankiewicz, chiamato Mank, cerca ispirazione guardando ai propri ricordi e al proprio vissuto.
Spesso quando registi più o meno affermati si cimentano con la biopic di un noto personaggio storico c’è il pericolo di dare vita a un prodotto didascalico e freddo o a qualcosa che azzarda troppo “scadendo” nel romanzato.
MANK è sì una biopic, ma sarebbe forse errato dire che essa ci racconti (seppure lo fa, egregiamente) soltanto di Herman J. Mankiewicz: esso ci racconta la genesi di uno dei film più importanti della Storia del Cinema, QUARTO POTERE.
Di primo acchito questo MANK potrebbe sembrare l’opera più distante dal far cinema fincheriano cui siamo abituati. Ma il regista di SEVEN è qui per stupirci ancora una volta. Questo film è prima di tutto un omaggio al cinema del passato, ma è anche un’opera tecnicamente e visivamente sorprendente. Fincher negli anni ha affinato la sua arte registica e qui ha raggiunto forse il suo livello più alto.
Per chi non conoscesse i fatti storici e i nomi e i volti che si susseguono in questa opera avrà forse difficoltà a star dietro a una sceneggiatura incalzante e seducente, fatta di battute sagaci, ma di un cinismo quasi corrosivo, scritta negli anni ’90 dallo stesso padre di David Fincher e poi abbandonata in un cassetto. Doveva arrivare Netflix (ebbene sì) perché il sogno di una vita si potesse realizzare.
Come dicevo MANK non è solo una biopic, ma non è neppure e soltanto il racconto di come è stata realizzata la sceneggiatura di QUARTO POTERE. Questo film è una fotografia di un vivido e lucente bianco e nero della Hollywood degli anni ’30 e ’40, un affresco socio politico di quel periodo di cui il nostro presente ne sembra il riflesso distorto e quindi una riflessione sul potere e sopratutto un atto d’amore -seppure anche critico – sul cinema stesso.
Fincher per ridonare luce a quel cinema perduto e a quell’epoca affronta il suo MANK quasi fosse un film prodotto negli anni trenta. Dalla regia misurata e superba, ma dal gusto e l’estetica retrò, dalla splendida fotografia di Erik Messerschmidt, passando per la perfetta colonna sonora firmata da Trent Reznor e Atticus Ross, fino a piccoli trucchi del mestiere perché il film sembri girato su vecchie pellicole (sono presenti le celebri bruciature di sigaretta) così come uno studio e un montaggio del sonoro davvero incredibili per creare alcuni sfarfallii della musica che richiamano alla mente il momento in cui finiva una bobina di pellicola e inizia la successiva.
È importante spendere due righe per glorificare lo splendido cast che ha lavorato a questo film.
Gary Oldman, nel ruolo di Mank, aggiunge un ruolo indimenticabile alle sue già tante straordinarie trasformazioni viste sul grande schermo. Ma attorno a lui ruota un cast corposo e ben diretto. Brilla Amanda Seyfried nel ruolo di Marion Davis, ma anche Tom Burke – che interpreta Orson Welles – che nonostante compaia per pochi minuti nella parte finale del film riesce a la sciare il segno. Non da meno sono poi la giovane Lily Collins e Charles Dance nei panni di del magnate Hernst.
Sebbene MANK non possa essere certo un prodotto per le masse è una pietra preziosa che tutti i cinefili (o presunti tali) dovrebbero avere nella propria collezione. Perché se David Fincher con THE SOCIAL NETWORK (2010) diresse uno dei film più importanti dell’era moderna guardando a uno dei fenomeni comunicativi del decennio scorso, oggi con MANK guarda sì al passato, ma drammatizza e sublima una verità che fa parte del nostro presente,: il potere mediatico e l’uso malsano che di esso possiamo fare.
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