MATTHIAS E MAXIME (2019) è l’ottavo film della folgorante filmografia del talentoso regista Xavier Dolan. Un’opera che riassume la poetica del giovane cineasta canadese, ma che ne evidenzia anche le pecche.
Maxime sta per lasciare Montreal per trasferirsi in Australia. Ha una madre problematica e un gruppo di amici casinisti ma affettuosi. A poche settimane dalla sua partenza però l’equilibrio del gruppo viene messo in crisi da un filmino studentesco che Erika, sorella di Marco, decide di girare. In esso Erika chiede a Maxime e a Matthias di scambiarsi un bacio. Quel bacio metterà in discussione le certezze dei due ragazzi e il legame che li unisce.
Accolto positivamente da buona parte della critica, questo MATTHIAS E MAXIME pare essere il film più distante dalla poetica di Dolan, ma in verità esso non si discosta più di tanto dalle sue opere precedenti.
Esso guarda a un legame affettivo (l’amicizia tra due ragazzi apparentemente eterosessuali) e ne studia i suoi contorni, le sue fondamenta, le sue direzioni, i suoi tabù, le sue possibilità.
Con grande padronanza della macchina da presa Xavier Dolan (vedi anche LA MIA VITA CON JOHN F. DONOVAN o TOM A LA FERME) guarda ai suoi protagonisti con la giusta distanza, ora incorniciandoli o intrappolandoli in attimi fuori dal tempo e da un contesto sociale che vorrebbe necessariamente catalogarli, etichettarli, definirli per quello che fanno o che dovrebbero fare. Ma i suoi eroi sono anime sommerse che a stento trovano una loro direzione, facili a perdersi in un lago come su di una strada, distratti dai propri pensieri che non sanno tacere (come quelle madri sempre troppo presenti e prevaricanti), ma che non si stancano di nuotare, di provare, di muoversi in avanti, perché per quanto il passato possa essere una confortevole certezza, è il futuro quello che devono abbracciare, è il futuro che aspettano di baciare con passione, il futuro e le sue incertezze.
Xavier Dolan entra ed esce nelle vite dei tanti coprotagonisti che affollano questa pellicola, conferendo la giusta luce e la giusta prospettiva, ma non riesce a dar loro (non a tutti almeno) il giusto peso, la giusta tridimensionalità: essi restano solo voci o volti che fanno da specchio o da ostacolo alla presa di coscienza dei suoi Matthias e Maxime. Si moltiplicano le figure femminili che accerchiano i due ragazzi, tutte così prese dal loro ego che sono quasi detestabili, ma mere ombre delle donne che abbiamo amato ad esempio in MOMMY (2014).
Dolan disegna per se stesso il personaggio di Maxime il cui disagio interiore trova la sua espressione esterna in quella voglia che ne “deturpa” il viso, una macchia (una colpa? un desiderio? una paura?) che non può nascondere, ma evidente come il segno di uno schiaffo sulla guancia o come la ferita sanguinante causatagli dalla madre. Ma è anche il tracciato di una lacrima (le tante lacrime versate in segreto) che solca il viso, il suo fantasma, l’impronta indelebile di un’assenza. Per quanto appassionato, Dolan non è certo un bravo attore e qui non riesce a conferire la giusta emotività al suo personaggio, ma lo appesantisce di smorfie e sorrisetti forzati che sono sempre gli stessi da sempre.
Certamente migliore è la performance di Gabriel D’Almeida Freitas nel ruolo del combattuto Matthias, stretto nelle sue camicie inamidate e nei sui completi eleganti, nella sua vita preconfezionata da avvocato di successo con una moglie e una madre talvolta castranti. Quel bacio (che noi non vedremo) diventa il punto di rottura con la sua vita preordinata e accenderà in lui tutta una serie di domande che restano taciute, ma di cui ne sentiamo il peso in ogni primo piano, nelle sue mani nervose, nei suoi occhi impazienti, nei gesti ora trattenuti e ora liberi di esplorare e sondare se stesso e l’altro.
Benché a questo giro la scelta dei brani proposti non è delle migliori, la musica resta altro elemento imprescindibile del cinema di Dolan che diventa contraltare delle emozioni dei suoi protagonisti e che ne esalta il montaggio e la direzione di alcune scene (su tutte quella di un temporale venuto a mettere a soqquadro ogni cosa) davvero di forte impatto emotivo.
La magia del cinema di Dolan sta proprio qui: nel venire a sconvolgere ogni cosa per affermare verità e pulsioni nascoste, senza la necessità di definirle, senza la pretesa di saperle spiegare, ma presentandocele nella loro disarmante purezza, nella loro indefinibile direzione. Quando egli tenta invece di misurarne la portata, di confezionarle per presentarle, per darle un nome, ecco che viene a spezzarsi quel raro momento di autenticità, si accendono le luci e tutto trova la sua giusta collocazione.
Ed è quanto accade in questo MATTHIAS E MAXIME.
Peccato che noi vorremmo restare a luci spente, a occhi chiusi e lasciarci baciare ancora, lasciarci toccare ancora, senza chiederci perché tutto questo accada e cosa questo possa significare.
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