ON THE ROCKS (2020) è un’opera piccola ma che guarda a grandi temi universali. Lo fa con quel garbo e quella compiaciuta semplicità di una regista che pare aver ritrovato se stessa: Sofia Coppola.
Trama _ Laura è una donna felicemente sposata, almeno finché non si convince che il marito la stia tradendo. Le sue paranoie vengono accolte e accresciute dal padre di lei, Felix, che convince la figlia a indagare e pedinare il marito per trovarlo con le mani nel sacco.
Partiamo da un particolare apparentemente insignificante, che è invece esplicativo del cuore della storia.
In una scena centrale di ON THE ROCKS padre e figlia sono a contemplare la bellezza di un quadro di Monet della celebre serie dedicata alle nifee.
Per chi non lo sapesse Claude Monet è tra i massimi esponenti dell’Impressionismo, movimento artistico nato nella seconda metà dell’Ottocento in Francia, in cui gli artisti, in opposizione all’arte accademica, si concentrarono sulla caducità della luce e dei suoi effetti sui colori e sulle forme. I più lavorarono in spazi aperti “en plein air“, quindi su paesaggi, perché venisse catturata l’immagine nella sua prima impressione, priva quindi di quella specificità del nostro cervello atta a determinare contorni e peculiarità della realtà per come la vediamo.
Nel suo settimo film Sofia Coppola, dopo alcuni titoli non propriamente brillanti che hanno messo in dubbio le sue capacità registiche e quel piacere nel raccontare di superficialità e vacuità umane, intrise però di significati profondi; ella qui torna a tematiche e personaggi a lei cari, in un certo senso confortanti, come la celebre copertina di Linus.
Personaggi che – al contrario di Monet e degli Impressionisti – non sono capaci di guardare al prossimo nella sua più sincera e semplice “prima impressione“, ma sono portati a contaminare e delineare l’altro “colorandolo” delle loro aspettative, delle proprie paure o mancanze o di un pregiudizio privo di alcun fondamento.
Non solo la magnifica presenza di un sempre simpatico e immenso Bill Murray, ma anche le vibrazioni emotive e le luci che illuminano o destabilizzano le esistenze dei suoi personaggi; sono tutti elementi che sembrano costruire un dialogo continuativo con una delle opere più amate della Coppola, LOST IN TRASLATION (2003). Se ieri lo scenario era un’alienante e futuristica Tokyo, oggi la storia si perde tra i bagliori e le artificiosità di una seducente, ma ingannevole New York.
La storia è volutamente semplice e scarna (come da copione). Dalle confortanti linee narrative di una qualunque rom com, in cui veniamo a conoscenza della vita e delle paranoie della bella Laura (una brava e credibile Rashida Jones che nel 2010 si era fatta notare in THE SOCIAL NETWORK di David Fincher), finiamo per seguire lei e lo strampalato genitore in un inverosimile film di spionaggio.
Dietro il pretesto di questo giallo sentimentale la Coppola guarda a temi universali come quelli della morte e della dipendenza affettiva.
Nei modi di fare non sempre conformi alle regole dell’anziano padre, pronto a tutto per aiutare la figlia a scoprire la verità, si cela una personale e egoistica pretesa di avere ancora un ruolo e un valore nella vita della figlia ormai adulta e indipendente.
Dopo una vita costellata di errori che lo hanno portato a un divorzio e aver perso i contatti con l’altra figlia, Felix, arrivato alle ultime pagine della suo racconto, vorrebbe essere solo riconosciuto e amato.
Dall’altra abbiamo la fragilità emotiva di una donna che non trovando qualcosa che le permetta di venir fuori dal blocco dello scrittore, inizia a ricercare falle non in sé stessa, bensì in quel marito perfetto ma sempre impegnato che pare non apprezzarla più (quando invece è lei a non piacersi).
Col supporto dell’invadente padre, Laura si trova a scrivere idealmente un giallo che sembra esser destinato a un tragico epilogo.
Film leggero e godibile che ci riporta la Coppola sui sentieri che ci fecero innamorare del suo modo di guardare alla superficie delle cose arrivando però a toccare le corde più profonde del nostro animo.
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