Bellu paese mio addò so' nato, lu core mio con te l'aggio lasciato PAESE MIO versi di Giandomenico Giagni, musica di Nino Rota
Ancora non si erano placate le polemiche scatenate da La Dolce Vita uscito nel marzo del 1960 che “Rocco e i suoi fratelli“, diretto da Luchino Visconti, piombò con una forza immane sulla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia di quello stesso anno, destabilizzando non solo il mondo culturale italiano di quel tempo ma soprattutto quello politico per quasi dieci anni.
Il film uscì in un periodo di piena trasformazione per l’Italia. Il Paese era ormai proiettato verso il boom economico, i vecchi equilibri iniziavano a scricchiolare e a causa di questi cambiamenti epocali i conflitti ideologici tra progressisti e conservatori riesplosero. In questo clima anche Visconti, nobile e paradossalmente marxista, sentì il bisogno di riprendere il discorso, parzialmente accantonato, sulla società italiana osservata e descritta criticamente nei suoi conflitti umani e sociali nel più classico stile viscontiano.
Proprio da questo impegno nacque il progetto e la realizzazione di Rocco e i suoi fratelli, un film che infatti scosse profondamente le coscienze del Paese, suscitò polemiche a non finire e riportò nuovamente, insieme a La dolce vita di Federico Fellini e L’avventura di Michelangelo Antonioni che, unitamente al film di Visconti formano una sorta di trilogia sull’Italia del boom economico, il cinema italiano al centro del dibattito internazionale. Il film fu proiettato alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia il 6 settembre 1960 fra molteplici dissensi e contestazioni e ci furono addirittura pressioni politiche perché non gli fosse assegnato il Leone d’oro, ottenendo soltanto il Leone d’argento tra l’incredulità generale del pubblico e quella di Visconti che disertò la premiazione.
Ancora una volta, come ai tempi di Ossessione e Senso, un film di Visconti divenne un casus belli che divise non solo la critica ma anche la politica. Tuttavia in occasione di Rocco e i suoi fratelli la battaglia fu molto più dura e aspra: Visconti fu messo sotto processo, da cui ne uscì assolto solo nel 1966, fu imposta all’opera un divieto ai minori di anni 16 tutt’ora in vigore e la censura obbligò il taglio di sei minuti di pellicola.
Un imponente affresco sociale dalle molteplici fonti letterarie
Parzialmente ispirato a Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori e sceneggiato da un team di campioni come Suso Cecchi D’Amico, Enrico Medioli, Pasquale Festa Campanile su un soggetto dello stesso Visconti in collaborazione con Vasco Pratolini, Rocco e i suoi fratelli vanta in verità ispirazioni letterarie plurime, alcune più evidenti, altre più occulte. Qui, infatti, accanto all’esplicita fonte testoriana, sono da registrare altre, e tutte implicite, suggestioni culturali: dal Verga de I Malavoglia, cui Visconti ha dichiarato di essersi ispirato come in un seguito ideale de La terra trema, al Thomas Mann di Giuseppe e i suoi fratelli, da L’idiota di Dostoevskij, il cui protagonista ricorda chiaramente la psicologia buona e remissiva di Rocco, fino alle atmosfere di Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller. Ma oltre a queste numerose citazioni letterarie Rocco e i suoi fratelli è soprattutto un possente melodramma, forse il più potente di Visconti, merito anche delle sue cadenze da tragedia greca.
Esso narra la storia della famiglia Parondi formata da cinque fratelli lucani emigrati a Milano con la loro madre. Nell’ostilità della realtà milanese si arrangiano come possono. Rocco, il più buono di tutti cerca di tenere unita la famiglia accettando persino d’intraprendere l’odiata carriera di pugile, ma tutto è inutile: suo fratello Simone prende una brutta strada e finisce per ammazzare una prostituta Nadia, sua ex amante, che ora gli preferisce Rocco. Il fratello maggiore Vincenzo rinnega le proprie origini diventando un piccolo borghese; Ciro cerca di sistemarsi diventando un operaio e Luca, il più piccolo di tutti, resta a casa dalla loro madre.
Come accadeva spesso nel cinema e nel teatro viscontiano anche in questo caso si avvalse, a parte l’attrice greca Katina Paxinou e Paolo Stoppa, di attori emergenti o al massimo semisconosciuti al grande pubblico, come ad esempio Alain Delon nella parte del protagonista Rocco completamente sconosciuto allora in Italia, Renato Salvatori interprete di Simone, in uno dei suoi primi ruoli drammatici, Annie Girardot nella parte della prostituta Nadia, la donna contesa tra Rocco e Simone, ed una giovanissima Claudia Cardinale.
La questione meridionale come motore del film
Come già detto in precedenza il film segnò il ritorno di Visconti ai temi d’attualità, in questo caso all’annoso problema della questione meridionale e dello sradicamento dei meridionali dalla loro terra d’origine, temi che negli anni del boom economico divennero sempre più pressanti. Il film, in cui è riflessa la tragedia dell’emigrazione dalle campagne del sud, riprendendo il tema verghiano dell’ “ideale dell’ostrica”, consente a Visconti di elaborare una profonda riflessione sulla società italiana di quegli anni, una società nel giro di vent’anni già profondamente cambiata. Qui non troviamo più il popolo pieno di speranze per il futuro nell’Italia appena uscita dalla guerra, ma piuttosto un’Italia in pieno miracolo economico, un Paese agricolo che si trasforma in pochi anni in una potenza industriale, la fine del focolaio domestico e dell’unità della famiglia disintegrati dal cinismo del calcolo e dalla disumanità delle grandi periferie, in questo caso milanesi. Rocco e i suoi fratelli, sicuramente il film più contestato e censurato di Visconti, fu contrastato quindi in parte per le numerose sequenze violente disseminate un po’ per tutto il film ma soprattutto per il suo contenuto politico, per la feroce critica al progresso che per il regista, come lo fu d’altronde anche per Verga, non è sinonimo di benessere.
Tenendo fede alle tesi gramsciane sullo sfruttamento sub coloniale del Mezzogiorno da parte dello stato italiano, Visconti in un’intervista di allora affermò di aver voluto ascoltare per il suo film, esattamente come fu per La terra trema nel 1948, la voce più profonda della realtà meridionale ferita dal progresso che dalla grande festa del boom economico non aveva ricevuto che briciole, una società che ancora attendeva di uscire da un isolamento morale e spirituale fondata su un pregiudizio tipicamente italiano che teneva (o meglio tiene) il Mezzogiorno in condizioni di inferiorità rispetto al resto del Paese.
Da questa opposizione tra le due Italie, una industriale ed una contadina sul viale del tramonto non poteva che consumarsi la tragedia della famiglia Parondi, sradicata dalle sue tradizioni e dalla sua terra, che ha il suo punto più dolente e alto nella dissoluzione del nucleo familiare nella città di Milano, una città rappresentata dal regista come ambigua, lugubre e respingente. A tal proposito è emblematica la scena finale del film, quella del dialogo tra Ciro e Luca nella quale il fratello maggiore confessa al piccolo Luca le sue speranze per un mondo migliore, in cui nessuno sia più costretto ad abbandonare la propria terra in cerca di pane e giustizia.
La censura: una questione in parte risolta solo nel 2015
Il processo legato allo scandalo di Rocco e i suoi fratelli andò avanti, come ricordò il produttore Goffredo Lombardo in un’intervista, per circa dieci anni. La censura, di matrice democristiana, non solo ordinò di tagliare circa sei minuti di pellicola ritenute scabrose ma anche di apporre al film un divieto di anni 16. La ferma opposizione di Lombardo e di Visconti ai tagli comportarono un lungo processo dal quale Visconti fu assolto solo nel 1966 e Lombardo alcuni anni dopo. Tuttavia l’idea di Lombardo di ovviare ai problemi creati sia dalla censura che da Visconti fu molto originale: propose, in sede di proiezione, l’oscuramento delle sequenze ritenute più violente ma con un divieto questa ai minori di anni 18.
Nel 1979, tre anni dopo la morte di Visconti, avvenne il primo passaggio televisivo del film che gli costò altri dieci minuti di tagli per renderlo “passabile” al pubblico generalista con un divieto ai minori di anni 14. La versione integrale del film è stata praticamente irreperibile fino al 2015 finché, grazie all’interesse di Martin Scorsese, grande ammiratore del cinema di Luchino Visconti (in un intervista del 2013 svelò che Il Gattopardo è il suo film preferito), e della Cineteca di Bologna, non si è proceduto al ritrovamento dei negativi tagliati e al loro reinserimento nel film totalmente restaurato in digitale.
Nonostante il bianco e nero perlaceo di Rocco e i suoi fratelli firmato da Giuseppe Rotunno sia tornato a brillare in tutta la sua potenza al Festival di Cannes del 2015 nei suoi 178 minuti originali, esattamente come furono presentati a Venezia nel 1960, la censura, dopo sessant’anni, ancora ritiene valido il divieto ai minori di anni 16 che di fatto oggi deprime quasi tutte le possibilità di un passaggio televisivo dell’opera.
Ammirato ed acclamato da intere generazioni di autori molto diversi tra loro, da Pedro Almodovar a Francis Ford Coppola, i cui richiami sono evidentissimi nel tragico impianto drammaturgico de Il Padrino parte II, Rocco e i suoi fratelli appartiene a quella schiera di film destinati a non invecchiare mai, ad essere per sempre un punto fermo non solo nella storia del cinema ma nella drammaturgia mondiale, un po’ come lo sono i romanzi di Dostoevskj per la letteratura. Guardare oggi Rocco e i suoi fratelli non solo significa fare un tuffo nel cinema più autentico e puro ma soprattutto comprendere i problemi delle “due Italie” che oggi come allora sembrano più lontane che mai.