TITANE di Julia Ducournau, vincitore della Palma d’oro al 74° Festival di Cannes, è un’esperienza visiva ed emotiva che lascerà i più sospesi tra l’incredulità e il disgusto. Ma dietro tanta esibita e compiaciuta ferocia c’è il coraggio di una regista esordiente capace di valicare i confortanti confini della normalità.
Trama – Una bambina, Alexia, ha un incidente stradale e le viene impiantata una placca di titanio in testa. Da adulta la ragazza ha maturato una strana e morbosa parafilia per le auto e lavora come ballerina in un salone di automobili. Incapace di costruire anche il più piccolo rapporto affettivo ella tende a uccidere chiunque tenti di avvicinarla. Una volta che la polizia è sulle sue tracce, Alexia decide quindi di cambiare identità e assumere quella di un ragazzo scomparso dieci anni prima, Adrien. Il padre del ragazzo scomparso è Vincent, capo pompiere, sopraffatto dalla perdita del figlio e dal suo invecchiare. Dipendente da steroidi, pur avvertendo qualcosa di anomalo nella figura di quel figlio ritrovato, accetta e desidera fortemente la sua presenza. Ma Alexia/Adrien nasconde goffamente e dolorosamente un altro segreto: una gravidanza.
Ci sono storie che esigono la totale sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore perché egli possa vivere completamente l’esperienza proposta dal narratore/regista.
TITANE di Julia Ducournau è certamente un film che fin dai primi minuti è intenzionato a scioccare. E lo farà per tutta la sua durata, in maniera sistematica al limite del compiacimento. Da subito poi la regista francese ci suggerirà cose che non subito saremo portati a comprendere o accettare, che potrebbero farci sorridere (forzatamente) o inorridire, eppure… è esattamente quella la strada percorsa dalla protagonista.
Tuttavia sarebbe superficiale bocciare senza termini un film spigoloso e provocatorio come questo. E io non sono qui per farlo. Al contrario, credo di essere dalla parte di chi ha apprezzato la calcolata natura sovversiva di questo TITANE e le scelte registiche portate ai limiti dell’accettabile di questa neo regista francese.
Dopo il sorprendente e altrettanto feroce esordio col film RAW, Julia Ducournau ha qui deciso di confermare la propria cifra stilistica e la propria visione di un nuovo cinema che fonde i generi cinematografici, dando vita a nuove forme visive ibride, metafora di una sessualità e un’identità fluida e complessa.
Parto subito col dire che la Ducournau non ci racconta nulla di realmente nuovo. Tematiche di contaminazione tra carne e macchine e parafilie a esse connesse ne avevamo già visto nel cinema di David Cronenberg in titoli insuperabili come VIDEODROME (1983) e CRASH (1996) e eXistenZ (1999). Così come non sono pochi i richiami al cinema iperviolento di Gaspar Noé (vedi IRREVERSIBLE, 2002 o CLIMAX, 2018), ma anche a un’estetica e un uso della luce tanto cara a Nicolas Winding Refn (vedi THE NEON DEMON, 2016).
Probabilmente la novità sta nel come tutte queste tematiche siano state affrontate e proposte al grande pubblico. La creatura partorita dalla regista è qualcosa che guarda al cinema di oggi e a quello di domani, alla speranza per un futuro in cui è possibile saggiare i confini proposti dal mercato e violentarli, trafiggerli, dilaniarli per superarli, così da liberare quel famoso estro creativo che presumibilmente possiedono i registi di oggi e di domani.
In questo senso è da guardare e assimilare l’ultima opera della Decournau: il manifesto di una volontà e di un’ispirazione che trova una sua via per venire alla luce, come un bambino che scalcia e colpisce dall’interno il grembo materno per affermare la propria esistenza.
In questo teatro degli orrori si stagliano fiere e ferite le anime e le fisicità di due interpreti mai così perfetti nelle loro rispettive parti.
La protagonista è l’esordiente Agathe Rousselle la cui presenza miscela sapientemente sensualità e rabbia, disperazione e brutalità, femminile e maschile. Disarmante, spigolosa, androgina nella sua complicata bellezza, Agatha ha pochissimi dialoghi, la sua recitazione è carnale, istintiva, fisica, animale.
E poi vi è la magnetica presenza del più navigato Vincent Lindon qui nei panni di un uomo distrutto e incapace di elaborare la propria perdita. Un padre il cui amore è ai limiti del morboso, quasi sempre e pericolosamente in bilico su di un affetto malato. Prova altrettanto impegnativa dal punto di vista fisico, ma che a tratti spezza e spiazza il cuore.
Queste due anime disturbate e disturbanti sono l’olio e il motore di una macchina/creatura che non può che essere altrettanto disturbata e disturbante, incapace per certi versi di familiarizzare con un pubblico comodamente adagiato sulle poltrone di una piccola o grande sala cinematografica. Ma TITANE è qualcosa che rapisce, colpisce, tramortisce e per quanto possa piacere o meno, di esso resta un livido nero che ci impiegherà giorni e giorni a sparire.
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