Francamente me ne infischio
Rhett Butler
La vittoria di Parasite come miglior film all’ultima edizione degli Academy Awards ha segnato una svolta epocale nel panorama cinematografico mondiale. A ben vedere ciò era già intuibile l’anno scorso quando Roma sfiorò per poco l’Oscar nella categoria principale. Come è stata possibile questa apertura del mondo hollywoodiano, notoriamente chiuso, ad una novità così eclatante? Da un lato paga di sicuro l’attuale poca creatività da parte degli autori americani (basti pensare alle magre edizioni degli Oscar degli ultimi anni), dall’altro all’inevitabile apertura dell’industria cinematografica americana verso nuovi orizzonti, pena il proprio fallimento.
Così, soprattutto negli ultimi anni, il Premio Oscar sembra di più celebrare l’arte cinematografica in senso stretto che l’immensa industria hollywoodiana, decisioni dettate probabilmente non solo dalla crisi del cinema americano ma anche dallo scontro del mondo della cultura statunitense con la politica reazionaria di Trump. In effetti Trump si è scagliato molto contro la vittoria di Parasite attraverso lo slogan “Ridateci Via col vento”.
Trattandosi di un film uscito ben ottant’anni fa, le dichiarazioni di Trump potrebbero addirittura far sorridere ma riflettendo, in riferimento alla sua politica fortemente nazionalista, nasconde un fondo di verità. Via col vento, pur non essendo un film perfetto nella sua eccessiva enfasi melodrammatica, conserva ancora un grande fascino ed è di diritto considerato il film più famoso e visto della storia del cinema. Esso è nato nel periodo di massima espansione dell’industria Hollywoodiana, dominata dallo Studio System e dallo Star System, e questo grande Kolossal del 1939 ne è la sua espressione più pura ed assoluta.
Prodotto da David O. Selznick per conto della Metro Goldwyn Mayer fu la più grande (e per molti anni insuperata) impresa produttiva cinematografica hollywoodiana, titanico non solo per la sua durata di quattro ore circa, ma anche per il maestoso impianto scenografico dei suoi set, per il gran numero di comparse e per gli azzardati effetti fotografici dell’epoca, oggi effetti speciali, che nel 1940 furono aggiunti per la prima volta tra le categorie degli Academy Awards.
Nella notte del 29 febbraio 1940 il film ottenne in totale dieci premi Oscar, di cui otto tra le categorie candidabili ed altri due speciali, restando per vent’anni il film col maggior numero di Oscar vinti (da segnalare il premio ad Hattie McDaniel, la famosa Mami, come miglior attrice non protagonista, prima donna afroamericana a vincere un Oscar).
Via col vento: un film a tratti inattuale ma dal fascino intatto
Tutto si svolge negli anni della guerra civile americana, in una fittizia tenuta nei dintorni di Atlanta, in Georgia. La bella e viziata Rossella insegue per tutta la vita il suo sogno d’amore con Ashley, sposato alla fragile Melania. Unitasi dopo la guerra con Rhett Butler si renderà conto dell’illusione del proprio amore per Ashley dopo aver perso suo marito Rhett.
Del film si è detto praticamente tutto, e tentare una critica senza risultare banali è praticamente impossibile oggigiorno. Presentato per la prima volta in pompa magna ad Atlanta il 15 dicembre 1939, in una città allora di media grandezza invasa da circa un milione di persone, il film fu subito record d’incasso mondiale, superato soltanto nel 2010 da Avatar, diventando il film associato agli eccessi del divismo per antonomasia e a tutto ciò che la grandezza di Hollywood rappresentava ancora per gli spettatori negli anni Trenta, ovvero una sorta di Fabbrica dei sogni.
Ormai dall’uscita di Via col vento sono trascorsi moltissimi anni e nonostante il pubblico di tutto il mondo ne sia ancora molto affezionato, sarebbe bene analizzarlo attraverso una veste più razionale. Il film, ma come pure l’omonimo romanzo della Mitchell, adotta in pieno il punto di vista degli sconfitti dalla storia (probabilmente un film come Via col vento sarebbe stato tacciato come revisionista qui in Italia), in questo caso i grandi proprietari terrieri schiavisti del sud e da ciò non può che derivarne una visione razzista della persona di colore: va notato come i personaggi neri vengano ritratti attraverso luoghi comuni molto accentuati e talvolta in maniera goliardica (ad esempio i verbi coniugati all’infinito e le voci che oggi potrebbero sembrare ridicole, come quella stridula della giovane schiava Prissy), mentre sono del tutto assenti le terribili condizioni a cui gli schiavi dell’epoca venivano effettivamente sottoposti (a tal proposito si veda il film premio Oscar 12 anni schiavo).
Su Via col vento si espresse anni dopo anche il famoso attivista dei diritti dei neri Malcolm X che sul personaggio di Prissy disse “Quando è entrata in scena avevo voglia di gattonare sotto il tappeto”.
Nonostante il film contenga oggi molte inattualità, tra cui l’estrema leziosità della sceneggiatura nei passaggi di natura sentimentale, esso continua a catturare l’immaginario di ogni tipo di spettatore.
Qual è la sua magia? La tormentata storia d’amore tra Rhett e Rossella? Il carisma dei protagonisti? O il fascino dell’ambientazione? Difficile stabilirlo. Ciò che è certo è che nessun film di natura commerciale come Via col vento ha mai messo così d’accordo pubblico e critica, un successo replicato forse solo da Titanic nel 1997.
Una complessa vicenda produttiva
Come già detto il precedenza la totale paternità del film è da attribuire quasi sicuramente all’illuminato produttore David O. Selznick, il quale avviò la pre-produzione con George Cukor, il “regista delle donne”, uno dei registi più influenti della Hollywood classica. A causa di molti diverbi non solo col produttore che cercava di imporre la propria visione a tutti i costi, ma anche con Clark Gable, interprete di Rhett Butler e star maschile del film che lo accusava di “occuparsi” troppo delle donne, Cukor fu sostituito da Victor Fleming, impegnato nella regia di un altro capolavoro dell’epoca, Il mago di Oz. Neppure Fleming ebbe vita facile a causa delle continue incursioni del produttore il quale fu a più riprese sostituito dal regista Sam Wood e dallo scenografo William Cameron Menzies. La regia fu alla fine accreditata a Victor Fleming anche se il regista non prese mai parte agli eventi pubblici legati al film (però l’Oscar andò a ritirarlo, sigh!).
La sceneggiatura realizzata da Sidney Howard ebbe una gestazione molto lunga e complessa: l’asfissiante presenza di Selznick nella sua fase di stesura favorì nello sceneggiatore la nascita di un esaurimento nervoso che lo spinse a completare il lavoro in Europa in totale isolamento. Tuttavia a causa della sua morte improvvisa non vide mai il film completato.
Mentre Selznick aveva idee chiarissime per l’interprete di Rhett Butler, ovvero Clark Gable, non fu lo stesso per Rossella. L’indimenticabile Vivien Leigh, vincitrice del suo primo Oscar, fu scelta personalmente dal produttore tra 1400 candidate, tra cui Katharine Hepburn, Joan Fontaine, Bette David e Joan Crawford.
L’attore inglese Leslie Howard nella parte del melanconico Ashley Wilkes ed Olivia DeHavilland interprete di Melania Hamilton, l’unica memoria vivente di quel leggendario cast, furono convocati direttamente dal produttore senza destare particolari grattacapi.
Una grande rivelazione invece fu quella di Hattie McDaniel, la celeberrima Mami, segnalata a Selznick direttamente da Clark Gable, premiata con l’Oscar come miglior attrice non protagonista, a cui fu vietato di assistere alla Prima del film a causa delle leggi razziali in vigore nella Georgia del 1939.
La fotografia curata da Ernest Haller, considerata avveniristica per l’epoca anche per quanto riguarda l’uso del colore, oggi rivela in realtà tutti i suoi limiti. Nei campi lunghi ed in esterno, soprattutto nelle recenti edizioni restaurate in digitale, è impossibile non notare un certo effetto cinematografico “posticcio”, con un uso del colore poco aderente alla realtà per un film di ambientazione storica.
I magnifici costumi curati da Walter Plunkett, paradossalmente oggi l’aspetto migliore del film insieme agli interpreti, non furono neppure candidati agli Oscar. Nell’immaginario collettivo alcune sue creazioni per il personaggio di Rossella: nella memoria l’iconico abito rosso, sprezzante quanto il suo viso, durante la scena del compleanno di Ashley.
Famosissime, enfatiche e alquanto strabusate le musiche di Max Steiner, per lo più tese a sottolineare la grandeur della produzione in maniera abbastanza convenzionale piuttosto che mettere in risalto i momenti chiave delle vicende raccontare o gli aspetti psicologici dei protagonisti.
Quantificare il successo di Via col vento oggi è un impresa ardua. In soli quattro anni ha portato nelle sale circa sessanta milioni milioni di persone, mentre in Italia arrivò solo nel 1948. Tuttavia, al di là degli incassi, esso è divenuto col tempo l’emblema di quel cinema d’intrattenimento di massa che fa del kolossal hollywodiano la sua massima espressione. Numerosi i grandi film che hanno seguito il suo modello, come i kolossal di David Lean Lawrence d’Arabia e Il dottor Zivago. Un tipo di cinema che oggi non esiste più.