ZIO FRANK (2020) è un viaggio esteriore e interiore in cui il protagonista, il percorso e la meta voglio raccontarci la medesima cosa: la conoscenza di se stessi. Un film piacevole e dei buoni sentimenti che accarezza ma non scalfisce il cuore.
1973. Frank Bledsoe, assieme al suo compagno Walid e alla nipote diciottenne Beth, si mettono in viaggio da Manhattan a Creekville, in South Carolina, per il funerale del patriarca di famiglia.
Alan Ball è certamente una delle figure più interessanti del panorama cinematografico statunitense. Benché egli non si possa definire molto produttivo, a lui dobbiamo la sceneggiatura di quella meraviglia che è AMERICAN BEAUTY (1999) di Sam Mendes, così come le serie di SIX FEET UNDER (2001-2005) o quella di TRUE BLOOD (2008-2014).
ZIO FRANK è la sua seconda prova come regista, dopo il tiepido successo di NIENTE VELO PER JASIRA (2007). La storia attinge dal vissuto dello stesso regista – così come accaduto nei suoi precedenti lavori – e dall’esigenza di raccontare la sua storia, quella della sua famiglia, e quindi di riflettere sui grandi temi di sempre: la vita, l’amore, la morte.
Il film si può dire che abbia tre anime che coesistono perfettamente: parte dai toni quasi da commedia indy per poi correre sulle note di un road movie (che ricorda per atmosfere GREEN BOOK) fino alla chiusura sospesa tra dramma e redenzione dove i nodi del cuore e dell’anima devono necessariamente sbrogliarsi, anche con dolore.
ZIO FRANK nel suo essere misurato nei modi e nei toni e nelle parole quasi mai scalfisce il cuore con prepotenza, preferisce accarezzare, pungere quanto basta. Non ha il coraggio di colpire duro anche quando potrebbe, ma sceglie la via del cuore e per esso passa quasi con passo felpato, timido, rispettoso di tutto (delle diversità) e di tutti.
A questo quadro quasi consolatorio e un tantino stucchevole si frappongono però – e per fortuna – le interpretazioni dei suoi attori.
Paul Bettany, smessi gli abiti di Visione in AVENGERS, ci ricorda quanto possa essere un attore dotato e capace di grandi performance. Il suo Frank è un ammasso di nervi scoperti ben nascosti sotto quell’aria da intellettuale, posato e affascinante, ma con un certo piacere nel bere.
Bettany riesce a dare il giusto peso al dolore interiore che porta, il senso di inadeguatezza che si trascina negli anni pur avendo raggiunto tanti traguardi personali (sia nella vita privata che sul lavoro) che dovrebbero farlo sentire una persona completa e risolta.
Luminose presenze sono poi quelle del compagno di lui, il solare e comprensivo Walid (un sornione Peter Macdissi) e la nipote Beth che ha il volto e il meraviglioso sorriso di Sophia Lillis che i più avranno rivisto nel film IT di Muschietti e nell’horror GRETEL E HANSEL (2020).
Se siete convinti che esistano delle animi affini che possono incontrarsi in un dato momento della vita per riconoscersi e salvarsi, al di là di quelli che possono essere i legami di sangue o di parentela; se pensate che si debba essere liberi di scegliere chi poter essere, al di là dei ruoli che società e famiglia vorrebbero per voi stessi; se pensate che la vita possa lasciare cicatrici indelebili, ma che si possa imparare a convivere con esse e da essere imparare a non farsi più male; questo è il film che fa al caso vostro.
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